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E uno e due.
Dopo due offensive sull’Isonzo e dintorni, ciascuno tirava i suoi bilanci.
Lo stato maggiore italiano aveva ben poco da rallegrarsi, vista la pochezza dei risultati a fronte delle ingentissime perdite di quei primi mesi di guerra.
Pure a Domenico Ficcadenti, nel suo piccolo, non erano mancate ragioni per maledire la guerra e prevedere tempi quantomeno cupi. Sin da subito aveva giudicato l’impegno bellico dell’Italia un cattivo affare e per convincersi di avere ragione non aveva avuto bisogno di seguire le vicende dei soldati leggendo giornali o sfogliando la “Domenica del Corriere” della quale si limitava a guardare la pagina illustrata di Beltrame: uno sguardo all’interno del suo laboratorio che si era andato impoverendo di mano d’opera gli era bastato. Della decina di dipendenti che aveva avuto sino ad allora, gliene erano rimasti due, di cui uno guercio, mentre gli altri erano stati chiamati alle armi: tre di questi ci avevano già lasciato la pelle. Fosse stato giovane, avrebbe bellamente reagito e studiato piani per sopravvivere alla crisi incombente. Ma la gioventù era retaggio del passato e al Ficcadenti erano mancate le forze per incrociare le armi col presente. Così aveva deciso tra sé di considerarsi appagato dei risultati raggiunti e libero di dedicarsi anima e corpo al lato artistico, dominato dall’idea di creare una serie di bottoni che, rappresentando come se fossero sculture o dipinti, il tempo che stava vivendo, potessero passare alla storia.
Di altro non si dava pensiero.
La Giovenca, nonostante la vedovanza, poteva dormire tra due guanciali.
La Zemia… be’, era grande abbastanza per badare a se stessa e in un certo senso fortunata, mercé la bruttezza, a dover pensare solo per sé.
Domenico poteva prendersi quindi la libertà di stare solo per intere giornate e chiuso nel suo laboratorio, delegando le scarne trattative commerciali, acquisti, vendite e sconti al dipendente più anziano, quel guercio che faceva Mirante di nome e che il più delle volte lo pigliava nel gobbo convinto però di essersi comportato come una vera volpe.
Volpe verace invece, Zemia aveva fiutato aria di pericolo.
In un paio di occasioni aveva assistito non vista alla trattativa di vendita di una partita di bottoni condotta dal guercio. In una di queste il Mirante non aveva pressoché aperto bocca, accettando le condizioni peraltro oneste dell’acquirente: al momento del saldo però, senza che nessuno glielo avesse chiesto e con un tono da carbonaro, aveva confessato che tutti quei bottoni erano fallati, così che il cliente, fingendosi offeso per la tentata truffa ai suoi danni, aveva minacciato di rivolgersi ad altra ditta se non gli fosse stato concesso un dimezzamento del prezzo d’acquisto, e così era andata. In un’altra occasione invece Zemia aveva sentito un insolitamente loquace Mirante menar vanto di essere la vera mente di tutta la ditta tanto che il titolare, ormai mero prestanome a suo dire, aveva messo nelle sue mani la conduzione degli affari, potendosi fidare solo di lui.
“Come se fossi uno di famiglia!” aveva esclamato, aggiungendo che nessuna delle due figlie, né la bellona, andata sposa e vedova dopo una settimana, né l’altra, quella specie di sgorbio che, come dicevano anche i bambini, avrebbe potuto trovar marito solo conoscendolo al buio più fitto e nello stesso buio tenendolo per la vita intera, s’erano mai interessate dei commerci, incapaci com’erano di capirci qualcosa.
A quel punto Zemia aveva giurato.
Non vendetta, sarebbe stato troppo facile rivalersi sul guercio: sarebbe bastato raccontare in giro del giorno in cui lui era andato a pietire l’assunzione, piangendo dall’unico occhio che aveva e raccontando, come poi il Domenico aveva riferito in casa, di aver sposato la peggiore delle donne possibili, sempre ubriaca e scostumata al punto da avergli rivelato che nessuno dei tre figli messi al mondo era suo. Vero o no che fosse, il Mirante aveva singhiozzato che a quei tre voleva bene come se fossero davvero suoi. Domenico Ficcadenti non solo l’aveva assunto ma, a distanza di anni, aveva preso alle proprie dipendenze anche due di quei bastardi, finiti poi, come tanti altri, a tentare di conquistare le terre irredente.
Niente vendetta quindi.
A Zemia mancava il mignolo della mano sinistra ma di occhi ne aveva due e sapeva guardar lontano.
Per intanto si era accontentata di dare un’occhiata ai libri contabili, pure loro disertati dal Ficcadenti, e aggiornati dallo stesso Mirante.
Un disastro.
Di pagina in pagina, quei libri aggiornavano solamente circa l’estrema faciloneria e la profonda ignoranza del guercio che non intendendosi per niente di ragioneria, e avendo pure lacune incolmabili in quanto all’uso della lingua italiana, aveva preso quel compito come se fosse un gioco, riempiendo le pagine del registro di cifre a casaccio e annotazioni stravaganti. In sostanza, dal momento in cui Domenico Ficcadenti aveva demandato anche quell’attività, tralasciando come sempre aveva fatto di annotare con cura entrate e uscite, acquisti e cessioni, il bilancio della ditta era diventato una nebulosa.
“Così non va” s’era detta.
Un bel giorno s’era presa la briga di affrontare il patrigno e senza andare troppo per il sottile gli aveva chiesto il permesso di assumersi la responsabilità di badare all’amministrazione della ditta.
Domenico Ficcadenti non aveva mosso obiezioni, aveva ben altro per la testa. In quei giorni aveva progettato una linea di “bottoni funebri” che potevano adornare le giacche e i foulards dei genitori privati dei figli morti in guerra, serbandone perenne memoria: rami di alloro intrecciati costituivano la cornice del bottone mentre il piatto centrale restava vuoto in modo che vi si potesse incastrare un ritrattino del defunto. Il tutto poteva poi essere attaccato al bavero della giacca oppure, con un piccolo accorgimento già messo in preventivo, fungere da spilla per signora.
Dai disegni che le aveva mostrato, Zemia aveva tratto cattivi auspici circa l’equilibrio del genitore. Peggiori, però, erano stati i pronostici circa il futuro della ditta dopo aver indagato i traffici attuali e averli confrontati con quelli degli anni precedenti.
A parte il disordine in cui li aveva tenuti quel cretino del guercio, i conti erano ormai quasi fallimentari.
Il bottone, insomma, non andava più come un tempo. Soprattutto il bottone artigianale, fatto a mano, con cura, uno alla volta!
Costava troppo e, tranne in rari casi, non era più simbolo di eleganza, oggetto grazie al quale distinguersi. Era diventato, piuttosto, cosa di uso corrente e la sua produzione era quindi ormai, in obbedienza alle leggi del mercato, industriale. Da cui una diminuzione drastica di ordini per la Premiata Ditta Ficcadenti.
La guerra poi ci aveva messo del suo, fiaccando le economie, quelle domestiche prima di ogni altra. I prezzi al consumo avevano subìto un rialzo dopo l’altro e chi, come il Ficcadenti, se ne stava chiuso nel suo laboratorio a sognare bottoni sempre nuovi con la testa tra le nuvole, non se n’era certamente accorto. A illuminare il Domenico sull’aria nuova e tutt’altro che sana che tirava in Italia anche prima dell’entrata in guerra, non era bastata la comparsa in tavola del pane fatto con la crusca, imposto per legge. Nemmeno aveva dato a vedere di cogliere la differenza quando aveva cominciato a masticare carne d’asino anziché bovina, quest’ultima pure lei rincarata e spesso sostituita dal più modesto quadrupede.
E le tasse?
Non potendo tassare l’aria, il governo aveva varato manovre per tassare i profitti di guerra, dalla qual cosa la Premiata Ditta era stata risparmiata, mentre invece era stata colpita dalla tassa personale che colpiva i soggetti di sesso maschile rimasti a casa. A proposito della quale il Ficcadenti s’era trovato gravato non solo di quella relativa ai due dipendenti, guercio compreso, ma aveva dovuto sborsare anche i soldi per la sua propria, nonostante l’età lo esonerasse dal partecipare al conflitto. Un errore dell’ufficio competente l’aveva fatto molto più giovane di quanto non fosse in realtà e poiché la burocrazia non accettava compromessi, onde evitare di passare per disertore e patirne le conseguenze, Domenico Ficcadenti aveva dovuto pagare e poi avviare una pratica affinché la verità circa la sua età venisse ristabilita e la tassa restituita.
Quando l’Italia aveva ormai perso circa duecentomila soldati conquistando pochi chilometri di roccia, Zemia, temendo giustamente che il futuro riservasse altre cattive sorprese, aveva preso la decisione e l’aveva comunicata al patrigno: per la Premiata Ditta Domenico Ficcadenti era ora di chiudere i battenti.
Conti alla mano, mica balle!
Sapeva però, Zemia, che quella notizia sarebbe stata come una pugnalata al cuore dell’uomo, ragione per la quale l’aveva studiata bene. Si trattava di chiudere per adattarsi alla situazione reale e permettere alla stessa Ditta di fare un salto di qualità. Era o non era un’eccellenza nell’ideare e fabbricare bottoni la Ditta Ficcadenti?, aveva chiesto al patrigno senza dargli il tempo di rispondere.
Aveva risposto lei.
«Sì.»
Non voleva quindi mettersi sullo stesso piano di quegli eletti che producendo cappelli, vestiti, profumi e chissà cos’altro dettavano legge nel campo della moda?
«Sì o no?» aveva chiesto.
«Sì» aveva risposto sempre lei.
Bene, l’ora si era fatta.
«Cioè?» aveva domandato il Ficcadenti.
Semplice, basta preoccupazioni di conti, entrate e uscite, clienti micragnosi, fornitori furbetti.
Non più il miserrimo commercio ma un lavoro di fino, destinato ai palati delicati.
Una piccola merceria, eccola la soluzione.
Lui manteneva il suo laboratorio continuando a ideare e realizzare i suoi immaginifici bottoni. Avrebbe pensato lei a stare al banco, gestendo il commercio, arricchendo l’esercizio con tutto ciò che serviva a fare del negozio una merceria degna del nome.
Dove, naturalmente i bottoni Ficcadenti avrebbero avuto un posto di primo piano, per esempio dentro a un espositore dove lui avrebbe potuto mostrare al pubblico i prototipi che andava via via inventando, consentendogli quindi di produrli su ordinazione e in esclusiva per il cliente.
Circa i due dipendenti rimasti, del cui destino il Ficcadenti aveva chiesto conto, Zemia aveva assicurato che se ne sarebbe presa cura lei. Uno, il più giovane, con l’incoscienza dell’età non vedeva l’ora di partire soldato. Al guercio aveva provveduto di persona consegnandogli una lettera di licenziamento compilata con tutti i crismi. Quando quello, dopo averla letta e averne colto sì e no il senso, le aveva chiesto cosa significasse, Zemia gli aveva risposto che voleva dire che se nel giro di un’ora non fosse sparito dalla circolazione avrebbe chiamato i Regi Carabinieri e l’avrebbe denunciato per violazione di proprietà privata, malversazione, truffa e aggiotaggio, mitragliando una serie di termini ignoti al Mirante ma così carichi di minaccia che quello era sveltamente sparito.
Alla sera di quello stesso giorno, Zemia aveva tratto un bilancio positivo delle sue azioni e s’era detta che, così facendo, aveva posto la prima pietra dell’erigenda merceria della Premiata Ditta Domenico Ficcadenti.
Che il bottone del fante, lanciato all’assalto con tanto di baionetta in resta, avrebbe di lì a poco abbattuto sul nascere.