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La lettera era rimasta a impolverarsi per oltre due settimane sulla scrivania del Notaro Editto Giovio e ci sarebbe rimasta per chissà quanto tempo se non ci fosse stata di mezzo una cena a base di rane, fritte e in guazzetto. La grettezza del Giovio era pari soltanto al suo smisurato appetito: era quindi convinto che il motto popolare che voleva la fama di Como nel mondo derivata da tre cose – el dòmm, la rana e i tètt de la Besana, una leggendaria e ben fornita panettiera – non si riferisse al voltiano esperimento quanto piuttosto agli animaletti dei quali si era fatto riempire più di un piatto, ottenendone infine una costipazione coi fiocchi. Una volta a casa non se l’era sentita di infilarsi sotto le coperte con quel mappazzone sullo stomaco. Ruttando a più riprese, s’era ricoverato nel suo studio dove ricordava di aver messo da qualche parte una bottiglia di liquore a base di erba liva, omaggio di un boscaiolo del monte Olimpino, ottimo per favorire la digestione. Notando che, bicchierino dopo bicchierino, il batracico malloppo imboccava la via dei suoi inferi, aveva ingannato il tempo scorrendo la corrispondenza che s’era via via accumulata, fino a che s’era ritrovato in mano la lettera indirizzata al fu maggiore Eracle Coloni.
Già apprendere che il mittente era un prete gli aveva fatto storcere il naso e, se non fosse stato che nella bottiglia di liquore residuavano ancora quattro dita di distillato gradevolmente amarognolo, la lettera sarebbe finita insieme ad altre cinque o sei, stracciate senza nemmeno leggerle oppure degnate di un’occhiata superficiale.
Poiché, però, non gli restava che quella oltre a un plico inviato dagli Uffizi di Pubblica Istruzione e Beneficenza Pubblica il cui destino era già segnato, il Giovio aveva deciso di leggerla fino in fondo, giusto per accompagnare gli ultimi due bicchierini con i quali avrebbe asciugato la bottiglia.
Dopo aver aperto la busta gli erano brillati gli occhi. L’erba liva ci aveva certo messo del suo. Ma il contenuto era stato tale da istigare la sua lussuria, inducendolo a pensare che, forse, quella volta pur essendoci di mezzo un prete avrebbe avuto la possibilità di combinare un buon affare.
La lettera in sé altro non era che lo scritto di un morente, i suoi ultimi pensieri da vivo affidati alla carta in una sorta di testamento spirituale. E, per sua sfacciata fortuna, affidati al padre nel pieno rispetto della gerarchia militare che dominava anche in famiglia affinché costui se ne facesse latore alla nuora, terza in grado. Piuttosto era stata una delle tre fotografie che accompagnavano la lettera, restituite ai soggetti immortalati affinché non andassero disperse, ad acuire la curiosità del Giovio.
Una era quella della pazza di casa Coloni, fotografata al tempo in cui l’ombra della malattia era ancora ben lontana.
La seconda era quella del maggiore, ben noto al Notaro soprattutto per questioni d’ufficio, vestito dell’immancabile divisa.
La terza, invece, era quella di Giovenca, immortalata il giorno del matrimonio, sul retro della quale la sposa aveva scritto “Tua per sempre”.
Il Giovio l’aveva lungamente guardata con occhio acquoso. Aveva saputo del matrimonio del tenentino con una “popolana”, come suo padre l’aveva definita quando loro due s’erano incontrati. Ma che la “popolana” fosse una manza di tale splendore non l’aveva proprio immaginato.
Aveva baciato quella foto e stracciato le altre due.
Quindi, con un ultimo rutto liberatorio, era sprofondato, vestito tale e quale, in un rumoroso sonno.