“L’estinzione della linea regnante dei Gonzaghi, seguita nel 1627, avea tratto sull’Italia una fiera tempesta di guerra. Un esercito di forse 40.000 Alemanni, contaminati” ei dice, (Sigismondo Boldoni cioè, bellanese, filosofo, storico, scrittore e medico, estensore delle righe qui citate, ndr) “delle stragi e del sacco di tutta Lamagna, calò improvvisamente per l’Alpi retiche nel Milanese. Obbediva, questa provincia in quel tempo, al ramo austriaco regnante nelle Spagne, onde ausiliarie ed alleate erano quelle truppe. Ma appena scesi a Colico, prima terra del re di Spagna, i buoni confederati la posero a sacco. Lo spavento si sparse per tutte le rive del Lario; ed i costernati agricoltori cacciavano su pei monti le mandrie, ed ogni cosa di pregio occultavano. Da Colico passarono le schiere in Bellano per tragittar di là nella Valsassina.”

Così nella testimonianza che ci lasciò l’illustre collega Sigismondo Boldoni, ahimè prematuramente scomparso, morto di peste, finito, come tanti altri ucciso dallo stesso morbo, in una fossa comune in quel di Pavia dove trovavasi al momento del decesso, tanto che a tutt’oggi non v’è possibilità alcuna di portare un fiore sulla sua tomba o recitare una prece.

Testimonianza si diceva.

Testimonianza diretta, tocca dire.

Poiché il Boldoni prese accurate note del passaggio dei barbari calati d’oltralpe per far danno sulla sponda orientale del lago di Como: danni di cui solo alcuni sono la citata peste e, come si mormora, la diffusione dell’orribile mal francese.

Eccellente cronista, il Boldoni ebbe contatti personali con gli alemanni invasori appartenenti alla legione del Fürstenberg e soprattutto con il comandante di quella, uomo rozzo e di modi spicci, ignorante anche, se è vero, come scrive il caro collega, che non conosceva l’albero che incorona la testa dei poeti, l’alloro.

“Da ogni parte – scrive il Nostro – ti assordano i tamburi e i timballi; da ogni parte grondano le lacrime degli infelicissimi abitatori.”

Tra gli infelicissimi, lui.

Esponendosi infatti a più di un rischio, temendo di non uscir vivo, di non scampare alla brutalità dell’infame canaglia, una sera affrontò il lago in tempesta, traversandolo in barca per portare in salvo presso un convento di Cappuccini che sorgeva in quel di Bellagio denari e poesie. E il testamento, si noti, tant’era forte il funebre presentimento. Non fu solo durante la perigliosa traversata, altri storici locali narrano che fosse in compagnia di due “donnicciuole” sulla qual cosa ci permettiamo più che legittimi dubbi: poco ci convince quel donnicciole, cosa se ne sarebbe fatto il Nostro di due pavide viaggiatrici che avrebbero reso viepiù periglioso il viaggio?

Piuttosto siamo propensi a pensare che, tutt’altro che timorose di stralusci e vortici improvvisi, le due fossero donne di quella razza che nell’alto lago nasce e prolifera, rotte a tutte le fatiche del remo, tetragone a ogni paura. E con elle il Nostro poeta ritornò al suo nido in quel di Bellano, temendo che la canaglia gli bruciasse la nobile dimora.

Sulla vicenda, un altro illustre storico locale, Antonio Balbiani, scrive così.

“Sembra però che a lui non toccasse molto maggiore danno che la paura: e convien dire che l’autorità del suo nome e della sua dottrina gli abbia servito di scudo, perché veggiamo ch’egli ragionava col Colloredo (ufficiale della legio Furstenbergica, ndr) di antiche storie, e dei costumi e dei confini della prisca Germania, e che amicato s’era altri condottieri di quella milizia, i quali avean posto una guardia alla sua porta; laonde tutte le donne del paese concorrevano nella sua casa, che in un gineceo parea trasformata.”

Correva l’anno 1630, tristemente noto per la peste nera che afflisse le nostre terre. Morbo infaustissimo dal quale sembravano immuni i germani invasori di cui, se qualche cadavere rimase steso a terra di qua o di là, fu per mano amica, risultato delle frequenti risse che si animavano tra la soldataglia il più delle volte ebbra.

Vi era tra gli invasori, tra coloro che stavano nel novero della guardia comandata a guardare la porta della dimora boldoniana, un tale Adalrich, un bastardo di mille sangui, crocevia di razze che si perdevano nella notte dei tempi. Tozzo e peloso, corto di gamba ma biondo e dall’allucinato occhio azzurro, era chiamato Ziege dai suoi, poiché si vociferava che fosse dotato di piedi caprini e che tra i tanti che avevano contribuito a metterlo al mondo ci fosse pure Belzebù. Pavido in battaglia e nelle scorribande e nei saccheggi, il bastardo era tenuto in conto dal suo comandante Degenhard e dai luogotenenti di costui, Guntram e Hugdietrich, per la facilità con cui riusciva a imparare lingue e dialetti dei luoghi da cui passavano devastando e seminando morte e malattie: intelligenza anche questa attribuita a qualche luciferina contaminazione del suo sangue ma di cui tutti, anche i compagni d’arme, si servivano ampiamente quando a intendersi non bastavano versi, ammiccamenti o altre scompostezze.

Adalrich “Ziege” fu come sempre il primo a intendersi con la popolazione bellanese, gli furono necessari un paio di giorni per entrare nelle trame del dialetto e impararne un elementare vocabolario. Fu lui, e non osiamo immaginare con quanto evocato stupore, a presentarsi alla magione boldoniana comunicando che il feroce Merode, colonnello della legio Furstenbergica, aveva eletto quella villa a quartier generale del suo stato maggiore. La storia ha poi narrato come quella casa divenne refugium di vergini e no timorose delle violenze teutoniche e noi non insisteremo oltre. Ai fini della nostra storia, importa segnalare che la legio Furstenbergica ripartì alla volta del basso lago per seminare altra morte e malattia, senza che al seguito vi fosse come sempre il suo caprino interprete. Troppo tardi colonnello e luogotenenti si avvidero della scomparsa del bastardo, quando indietro non era più possibile tornare. Peraltro, se pure il Degenhard avesse mandato a cercarlo, nessuno l’avrebbe mai trovato, nascosto com’era in una cassapanca di casa Boldoni e dove stette, senza né bere né mangiare per giorni tre. A ben altri sacrifici era abituato, la cosa non gli costò più che qualche chilo guadagnandogli peraltro la compassione, e la comprensione, del padrone di casa cui il caprino soggetto si rivolse parlando la lingua del luogo ed esponendo le ragioni che l’avevano portato a nascondersi nella sua dimora per sfuggire alla vita randagia cui la sua condizione di bastardo mal nato l’aveva da sempre destinato. Gli giovò la conoscenza di quel dialetto peraltro rozzo, conquistandogli la simpatia di tutti coloro che stettero ad ascoltare la sua richiesta di asilo. La pronta intelligenza che non gli difettava e che gli aveva permesso di imparare in così poco tempo a intendersi con gli indigeni, gli valsero il salvacondotto per restare.

Correvano i primi mesi dell’anno 1630 e Adalrich “Ziege” poteva avere sì e no vent’anni. Non ebbe vita facile i primi tempi. Pur essendo sotto l’ala del più in vista tra i signori bellanesi, era pur sempre un alemanno, in più brutto, in odore di diavoleria e sospetto di poter trasmettere anche col solo sguardo le peggiori malattie infettive. Avrebbe sicuramente fatto una grama fine, o avvizzendo come un caprone solitario oppure cedendo a qualche primitivo istinto per essere poi giustiziato a furor di popolo, se circa sei mesi dopo la partenza della sua ex legione, al portone della dimora boldoniana non si fosse presentata Medinella Auriggi, ascesa a un certo quarto di nobiltà dopo il fortunato matrimonio con uno dei tanti maschi della famiglia Lorla, pari, per ricchezza, a quella del Boldoni. La meschina, cedendo al buon cuore che le albergava in petto e grazie al quale l’intera linea maschile della famiglia Lorla ne aveva assaggiate le grazie, aveva obbedito alla compassione verso tale Bathilde, una ragazzotta tutto fare e prendere, aggregata alla pestilenziale legione e se l’era nascosta in casa per sottrarla ai barbari. L’aveva destinata a lavori domestici, tenendola segregata per tutti quei mesi, sino a che, pochi giorni prima, come la stessa Medinella raccontò, la poveretta aveva dato in smanie, gridando nella sua lingua incomprensibile. Pareva posseduta, tuttavia lei non se l’era sentita di chiamare il prete, che pur diceva messa nella cappella padronale tutte le mattine, temendo di rivelarne la presenza e recarle danno. Purtuttavia ci voleva qualcuno che capisse le parole della scalmanata ed ecco quindi che si era presentata a chiedere il soccorso del capro che, si sapeva, stava sotto lo stesso tetto dell’altro insigne bellanese.

Il mistero, di poco conto, delle grida di Bathilde venne lestamente svelato. La poveretta non ne poteva più di stare chiusa nelle stanze che la Medinella le aveva destinato, aveva bisogno d’aria, di cieli e d’altro di cui, nonostante tutto, s’era abituata stando in compagnia della canaglia che l’aveva perduta senza darsi pensiero.

Ziege, traducendo i versi di Bathilde, mise il cuore in pace a tutti, garantendo che avrebbe provveduto lui alle necessità della giovane, e così fu, tanto che i due si unirono in matrimonio.

Fu in quel tempo, tragico mese di luglio, che il Nostro, trovandosi in quel di Pavia contrasse la peste, mercé un sarto infetto che gli portava nuove vesti. In quell’occasione Ziege dimostrò che l’animo umano è sensibile all’ambiente che lo circonda e, quanto questo è più gentile e raffinato, come quello che si respirava nella dimora che l’aveva accolto, riesce a educare al bello e al buono anche l’animo più rozzo. Dando mostra di sprezzo del pericolo e di insospettabile affezione al povero padrone di casa, volle partire benché fresco sposo alla volta di Pavia nel tentativo, infruttuoso ahimè!, di riportarne alla terra natia almeno il corpo. Tentativo inutile, come già detto, ma che, per la nobiltà insita nel gesto, aprì all’alemanno e alla sua sposa la porta della definitiva ammissione nella cerchia di quei di casa.

Dall’unione nacque, nel 1632, un figlio che i due genitori, in omaggio al luogo, vollero chiamare Albino, avendo saputo che da qualche parte lì sul lago si onorava quel santo. Fu questo Albino soggetto alquanto strano. Certamente nessuno l’avrebbe detto figlio di un genitore caprino e di una genitrice dal turbolento passato. Bruttino anziché no, ma compito, silenzioso, giudizioso e servile, ragionevole, e saggio alla sua maniera, fu uno dei primi bellanesi, poiché ormai tale si considerava ed era, a considerare quanto fosse inopportuna la riforma dei pesi e delle misure che, nel 1666, il governatore spagnolo residente in quel di Como volle imporre a tutti i paesi del lago che sottostavano al suo dominio. Fu il primo che diede voce, pur se del commercio non si impicciava, a ciò che i commercianti avevano pensato dopo essersi trovati tra le mani le nuove tabelle di pesi e misure che, ogni volta consultate, li confondevano ancora di più. Insomma, si trattava di sovvertire un ordine costituito che durava da saecula saeculorum e nessuno vedeva l’opportunità di vincere la pigrizia che il cambiamento avrebbe minato oppure valutare gli eventuali vantaggi insiti nella proposta dello spagnolo dominante. Ai posteri lasciamo il giudizio su tale forma mentis, ostile per tradizione a cambiamenti o novità, quali che fossero.

Per quanto concerne la presente storia va segnalato che a un certo punto la fama delle analisi che l’Albino era andato facendo sul provvedimento dello spagnolo superò le mura che contornavano la dimora boldoniana, avviatasi nel frattempo a una triste decadenza, e un bel dì nel giardino della stessa dove quello si occupava di tenere in vita qualche albero da frutta e alcuni cespugli di rose, comparve una triade di individui che si presentò quale rappresentanza di tutti i commercianti bellanesi, nessuno escluso, dai magnani ai macellai, dai merciai ai conciatori di pelli.

Li guidava un certo Menanio, barbiere e all’occorrenza cerusico, il quale, presentati i sodali Pereneo, uccellatore, e Spartanio, erbivendolo, chiese all’Albino di esporre a loro tre, per intero e in modo chiaro, il suo pensiero attorno alla bolla del governatore, pensiero di cui a loro erano giunti spizzichi e bocconi, riportati dalle lingue di questo o quel frequentatore di casa Boldoni. Fatti accomodare i tre, l’Albino spiegò loro il suo pensiero. In una visione di globalità, disse, considerando che le leggi le facevano i potenti e a essi si doveva una per quanto dolorosa obbedienza, forzata sottomissione, sarebbe stato indispensabile acquisire quell’ordine e praticarlo, onde evitare di essere estromessi dal progresso con il rischio di finire in un vicolo cieco, dentro il quale il potente non si sarebbe più curato di loro commercianti. Peraltro, considerando la vanità delle cose del mondo, considerando come fosse aleatorio il sogno di eternità dell’uomo, considerando come nessuno, nemmeno lo spagnolo, potesse far previsioni sul futuro e affermare che il suo regno sarebbe durato dieci, cento, mille anni, non era nemmeno da scartare l’idea di mantenere la tradizione secolare, e nella fattispecie quei sistemi di pesi e di misure, poiché vista la volubilità delle vicende umane dentro la Storia si poteva dare anche il caso che tanta fatica risultasse inutile.

Ma come fare a vincere la battaglia con lo spagnolo?, chiese il Menanio.

Non certo con le armi, rispose Albino.

Con la parola invece. L’arma che aveva dato nuova vita a suo padre, aveva dato a lui una madre e adesso gli consentiva di spiegare a loro tre lo stato delle cose.

Dei tre, nessuno aveva ben compreso il senso dell’alato parlare dell’Albino. Tuttavia erano tutti e tre convinti che solo uno dotato di tale favella avrebbe potuto convincere anche un sasso, portandolo sul suo carruggio. Quindi fu logica conseguenza ciò che il Menanio chiese: che si occupasse lui di andare a Como alla corte del governatore a pietire comprensione e generosità, affinché quella bolla restasse lettera morta. A quella richiesta l’Albino si negò recisamente: temeva il lago, l’acqua, retaggio delle generazioni che l’avevano preceduto e con l’acqua avevano avuto sempre rari contatti, gli faceva paura. Spalleggiato dai due comparucci, il Menanio entrò in azione quale commerciante.

Logicamente, disse, un tale compito, anche nel caso infausto che non sortisse l’effetto desiderato, meritava degna ricompensa. E toccava all’Albino dire quale prezzo avesse la sua intermediazione presso lo spagnolo.

All’uscita, l’Albino cambiò atteggiamento. A una tale offerta sarebbe stato sciocco dire no, valeva la pena affrontare, per una volta, il timor panico delle acque lacustri, per ottenere ciò cui da tempo il suo animo anelava: la mano della leggiadra Eberarda, ventenne figlia di fornaio cui la gioventù del paese avrebbe sacrificato un anno di vita per un solo bacio.

Esternata la richiesta, l’Albino si aspettava una franca risata in coro da parte dei tre.

«Consideratela cosa fatta» rispose invece il Menanio.

Quando c’erano di mezzo gli affari niente lo fermava. Ed era certo che anche il fornaio padre della bella non avrebbe battuto ciglio: il cassetto innanzitutto. Riguardo alla ragazza non se ne diede pensiero. Erano tempi, quelli, in cui al gentil sesso toccava obbedir tacendo.

L’Albino partecipò così alla mitica discesa di una barca bellanese verso il capoluogo, tenendo in ansia tutto il popolo che fidava in lui per giorni e giorni, sino al momento in cui, tornando vincitore, riportò la novella del ristabilimento della usuale tabella di pesi e misure e, pur senza saperlo, fondò la tradizionale festa popolare detta della “Pesa Vegia” che ancor oggi si celebra con molto concorso di popolo.

La sera del ritorno di Albino si animò un primo, rozzo corteo che imitava l’arrivo dei Tre Re presso la culla del Salvatore, corteo che con il passare degli anni si sarebbe via via arricchito sino a diventare in alcune occasioni ridondante e molesto. Ma questa è un’altra storia. Al fine di proseguire con la nostra, giova dire che la mattina successiva lo stesso Albino si presentò presso la bottega del Menanio affinché costui onorasse il debito contratto e poiché il barbiere-cerusico quando si trattava di affari aveva una sola parola gli comunicò che l’Eberarda non solo era pronta a maritarlo ma che se ne sentiva addirittura onorata, avendo ormai l’Albino l’aureola di salvatore della patria bellanese.

Il matrimonio non fu infruttuoso. Dopo un paio di bimbi nati purtroppo esanimi la ragazza riuscì a mettere al mondo un maschietto per la gioia del non più giovane sposo. Circa il nome non vi furono soverchie discussioni: i due vollero che venisse chiamato come uno dei Re Magi, scartando però, per motivi di discutibile prevenzione nei confronti della razza, il nero Baldassarre. Poiché Melchiorre suonava a entrambi cacofonico, la scelta cadde sul nome del terzo, e Gaspare fu.

Un piccolo dispiacere tentò invero di scalfire la gioia di entrambi i genitori. Capitò infatti che ormai, estirpatasi da Bellano la genia dei Boldoni, pure le vecchie e quasi fatiscenti mura della villa cambiarono padrone, il quale della servitù che ancora si manteneva, in verità non saprei dire come e con che mezzi, presso quella dimora, non seppe che farsene e se ne disfece in quattro e quattr’otto. Se per i più il licenziamento fu drammatica mazzata, per l’Albino fu una sorta di nascere a vita nuova: il prestino del suocero infatti lo accolse benevolmente, al pari di quest’ultimo che, ormai anziano, meditava di godersi in pace gli anni che gli restavano. Fu così che, protetto dal calore del forno e benedetto dal profumo del pane, nacque, nel 1668, il già citato Gaspare. Tra le notizie certe che si possono diffondere circa il giovane Gaspare vi è uno stralcio di lettera che il prevosto di quegli anni, don Sorto Laveno, scrisse, per motivi che purtroppo non conosciamo, a un correligionario, in cui lo definiva “giovane di buon comando, buono, come usa dire il popolo, al pari di un pezzo di pane e peraltro abilissimo nel confezionare quello che fu l’ultimo cibo di Nostro Signore”.

Nato infatti tra gli effluvi del forno e gli aromi che dalla sua capace bocca uscivano, Gaspare dimostrò sin dai primi anni della sua vita una singolare propensione a trattare la materia prima che ci dona il pane. Sebbene per lui Eberarda e Albino avessero predisposto una vita priva delle fatiche che sono note ai panificatori, Gaspare, quando fu in età da poter esprimere compiutamente il proprio pensiero, decise che il suo mestiere sarebbe stato quello del fornaio e a questa decisione i genitori dovettero attenersi: convincendosi piano piano, vedendolo lavorare, notando con quanto amore trattasse le farine, che con evidenza una mente superiore aveva scelto per il loro figlio il lavoro cui consacrare la vita. A ciò, nel giro di pochi anni, si affiancò la fama del pane di Bellano che usciva dalle mani del Gaspare: fama che spingeva non solo famiglie, ma anche e soprattutto albergatori, non solo dei paesi finitimi ma anche di quelli della sponda opposta del lago, dove il turismo d’eccellenza fioriva florido, a ordinare presso la sua bottega il pane. Ne conseguì un considerevole aumento del volume di affari per fare fronte al quale chiunque si sarebbe piegato alla necessità di assumere apprendisti o mano d’opera che dir si voglia. Non Gaspare, nonostante Eberarda soprattutto, insistesse affinché il figlio non si trovasse costretto a consumare tutta la sua vita dentro il forno, negandosi a tutto ciò che di bello e di buono il mondo avesse da offrire.

Se fu l’amore a illuminargli la strada da seguire, è cosa che lasciamo al giudizio del lettore.

Nell’estate 1695 sbarcò a Bellano una variegata compagnia di viaggiatori, ospiti dello spagnolo, che stavano compiendo il periplo del lago alla scoperta delle sue meraviglie, e, stante lo scopo del viaggio, non potevano quindi tralasciare una visita a quella singolare scultura della natura che è nota con il nome di Orrido. Ospiti di una delle più insigni famiglie bellanesi dell’epoca, la famiglia Lorla, che dimorava in una ridente villa frutto del ricongiungimento delle case dei D’Adda e dei Silva, i visitatori si fermarono ben oltre il previsto, stante l’amenità del luogo. Ed ebbero, tra le tante cose, parole di elogio per la qualità del pane che in quella casa si consumava, cibo che per la sua bontà poteva ben competere con l’altrettanto famoso pane di Como. Ora, a provvedere all’acquisto del pane per gli ospiti che durante il giorno se ne andavano di qua e di là spesso pranzando in riva al lago oppure su un praticello di montagna, incontrandosi con il padrone di casa solo alla sera per pantagrueliche cene, a provvedere a tale acquisto, si diceva, pensava una ragazza di nome Clara, splendida diciottenne originaria di Cernobbio, la cui grazia non sfuggì al Gaspare il quale, solo per lei, prese a confezionare pani che erano veri e proprio messaggi d’amore.

Pani a forma di cuore spezzato oppure trafitto da una freccia, forme di evocative nuvole, lune pensose, uomini inginocchiati davanti al proprio desiderio.

Di pronta intelligenza, alla ragazza non ci volle molto per comprendere il significato di quelle forme e poiché anche a lei il Gaspare non dispiaceva affatto, accanto all’idea di farne il suo innamorato si affiancò tristemente quella di non poter lasciare la corte della spagnola presso la quale serviva. La “ragion di stato” prevaleva in lei.

Sennonché un giorno, quando ormai la partenza della comitiva era ormai annunciata a breve, una delle dame che ne facevano parte la colse mentre sbocconcellava uno di quei pani, gli occhi umidi. Curiosa di quella forma di pane e dell’emozione con la quale Clara la stava lentamente consumando, volle interrogarla, esigendo risposte che la ragazza ben volentieri le fornì, vedendo in lei una possibile soluzione al suo dilemma d’amore. Una volta informata, la donna si consultò con tale Ferdinando de Carvalho, accompagnatore, garante e consigliere del reggente spagnolo, il quale divisò sapientemente, e con mediterranea solarità, che non era dato all’uomo negare la felicità terrena ai suoi simili. Vedeva quindi di buon occhio l’arricchirsi della corte comasca di un panificatore di tale eccellenza: insomma, essendo delegato dal Gobernador per le faccende della servitù, acconsentiva e benediceva quelle nozze.

L’unione tra il Gaspare e Clara vennero celebrate presso la cappella privata di casa Lorla. Sul viso di entrambi gli sposi era ancora dipinta la sorpresa per la repentina, felice conclusione del loro idillio. I genitori tennero a freno le lacrime fino al momento della partenza della comitiva che, dopo un mese passato a visitare la sponda occidentale del lago, fece infine ritorno a Como, dove il Gaspare riprese a mettere le mani in pasta per rifornire di pane tutta la corte del Gobernador.

Furono anni felici, addirittura spensierati, quelli che seguirono le nozze del Gaspare e della Clara. La vita nel capoluogo comasco sembrava fatta di sole dolcezze e queste a loro volta parevano essere l’essenza grazie alla quale sia il pane sia certi dolci, che il Gaspare aveva cominciato a sperimentare, diventavano sempre più buoni e lodati.

Le voci che anticipavano i venti di guerra che di lì a poco, morto Carlo II re di Spagna senza lasciare eredi, si sarebbe scatenata non sconvolsero la serenità degli sposi. Anzi la loro gioia si accrebbe con la nascita di un figlio cui imposero il nome di Ferdinando in ricordo del paraninfo che aveva favorito le loro nozze.

L’inasprimento dei rapporti tra le varie diplomazie in campo nel tentativo di evitare un conflitto armato per la successione spagnola, l’instabilità sempre più palpabile dei tempi a un certo punto convinsero il Gaspare e la sua sposa a chiedere consiglio circa l’avvenire al buon Ferdinando de Carvalho. Il quale, essendo uomo che amava la propria vita come quella altrui, si adoperò affinché niente più li legasse alla corte spagnola, rendendoli liberi di decidere per il meglio. E in quanto a ciò consigliò loro un rapido ritorno al paese natale del fornaio, dove avrebbero certamente vissuto in acque più tranquille, lontani da teatri di guerra sempre più prossimi.

Per quanto dato col cuore, il consiglio dello spagnolo non sortì l’effetto desiderato.

Il ritorno nella dimensione piccola e, diciamolo senza vergogne, riduttiva del paese sconcertò non poco il Gaspare e la novella madre. Lontani dai fasti, benché solo sfiorati, intuiti, annusati della corte spagnola, i due si sentirono come se qualcuno li avesse condannati a una sorta di morte civile. Il pane stesso che il Gaspare aveva ricominciato a cuocere patì il triste sentire delle mani che lo impastavano. Mesi, però, furono necessari affinché i due, sfiniti dal continuo rimuginare il disagio, si arrendessero a confessarselo reciprocamente.

Da qui l’eroica decisione, presa con la consapevolezza che altra via non ci fosse, di sradicarsi definitivamente da Bellano per metter radici altrove.

Ma dove?

Milano!

Il nome della città sbocciò quasi contemporaneamente sulle labbra di entrambi.

Dopo Como, un’altra città. Una città dentro la quale sarebbero stati al sicuro meglio che altrove.

Milano dunque.

Ma a fare che, campando in che modo la vita?

Ci voleva un lavoro. E di fornaio, visto che d’altro il Gaspare non si intendeva.

Fu lo stesso Gaspare a prendere l’iniziativa. Più addentro, più informato, proprio perché nato e cresciuto lì in paese, di certe chiacchiere cui aveva sempre dato ascolto senza parere, ma che adesso potevano tornargli utili.

Agì rapidamente.

Vi era a quel tempo a Bellano un piccolo convento dove vivevano alcuni fraticelli appartenenti all’Ordine degli Umiliati. Ordine inviso al padrone spagnolo, sul conto del quale se ne raccontavano di cotte e di crude, sino ad affermare che nei conventi degli Umiliati si desse rifugio a briganti e assassini e addirittura che alcuni frati si fossero dati alla malavita. A riprova di ciò il fatto che il Vescovo di Milano tentò di sciogliere l’Ordine degli Umiliati nel tentativo di stroncare lo scandalo. Immuni dalle chiacchiere che pur giungevano alle loro orecchie e alieni da azioni vessatorie: i pochi frati che vivevano nel convento conducevano vita a sé. Certo che comunque nessuno meglio di loro avrebbe potuto dargli indicazioni sul capoluogo milanese, il Gaspare volle consultarsi con il Priore di costoro. Bonariamente costui, che aveva nome fra’ Glicerio, lo illuminò con un suggerimento preziosissimo: la vita ritirata che conduceva insieme con i suoi confratelli non gli permetteva di dare consigli sicuri o dotarlo di lettere di presentazione. Ma era certo che un panificatore d’eccellenza come lui non avrebbe faticato a farsi largo in una città come Milano che ancora pativa la desolazione che la peste s’era lasciata alle spalle mietendo vittime in ogni categoria della società, mettendo in ginocchio numerose attività produttive. Quello era il momento per tentare la sorte, lui e la moglie avevano ancora l’età per poter guardare al futuro con speranza. L’aveva benedetto e il Gaspare era ritornato a casa animato da una sensazione di conquista che aveva immediatamente trasmesso anche all’animo di Clara.

Così, in quattro e quattr’otto, i due, anzi, tre col piccolo Ferdinando, erano partiti alla conquista di Milano.

Seguirono anni felici nonostante Milano patisse ancora pestilenziali conseguenze. Tuttavia fu proprio in virtù dei disastri causati dalla peste nera che il Gaspare riuscì a trovare casa e bottega, rilevati a ridicolo prezzo, a non molta distanza dalla Chiesa della Parrocchia di San Nicola in Dergano. In quel luogo Gaspare, Clara e Ferdinando vissero bene sin da subito: una quarantina di focolari per un totale di circa trecento anime molte delle quali bisognose, e alle quali il Gaspare non si negò, elargendo la grazia che usciva dalle sue capaci mani. La fama di tanta generosità crebbe così in fretta che ben presto al forno di Derghen, come l’aveva battezzato il Gaspare seguendo il dialetto del posto, cominciarono ad afferire disperati da ogni luogo, mettendo in qualche difficoltà il generoso fornaio. Non fosse stato per il parroco di allora, il Gaspare avrebbe dovuto prendere drastiche decisioni e limitare la sua generosità. Il sacerdote invece, attento a tutto ciò che accadeva ai suoi parrocchiani, volle proporgli di salvaguardare la sua attività creando in parallelo una mensa parrocchiale alla quale lui avrebbe donato tutto il pane che credeva giusto donare ai poveri mentre lui avrebbe associato una minestra o qualcosa che al pane avrebbe potuto accompagnarsi. Clara, coinvolta nel progetto, accettò di occuparsi della distribuzione del cibo. Quale premio il Gaspare venne ammesso alla confraternita del Santissimo Rosario, con diritto di portare l’abito rosso.

Giunse così, tra una gioia e l’altra, l’infausto anno 1706 in cui il Gaspare, per la sua sfortuna e quella della sua famiglia, morì.

Mi valgo, qui, degli studi fatti quale medico e dell’esperienza accumulata in tanti anni di lavoro, per esprimere con discreta certezza il pensiero che il poveretto morì per una polmonite trasmessagli dai piccioni che nel frattempo si era messo ad allevare. Ne fa testimonianza una breve memoria del parroco di San Nicola in Dergano che, essendogli stato accanto sino alla fine descrive i suoi ultimi istanti di vita “percorsi da febbre delirante, con polsi che sempre più lo allontanavano dalla vita, mal di capo e spasmi muscolari”.

Ciò, appunto, mi fa ritenere che il povero Gaspare sia stato ucciso da quella che noi moderni chiamiamo ornitosi.

Tornando alla nostra storia, tocca aprire una dolentissima parentesi, poiché ritroviamo una giovane vedova, di nient’altro in grado se non badare alla casa e al figliolo Ferdinando. Col che non si vuole sminuire il lavoro domestico ma rimarcare come i due restarono senza alcuna fonte di sostentamento.

Chi semina bene però non può che raccogliere bene, e il povero Gaspare era stato in ciò un gran seminatore.

La disgrazia che aveva tolto al mondo il buon fornaio non aveva lasciato indifferenti e, su tutti, fu il parroco di San Nicola in Dergano a correre in aiuto della povera vedova e dell’orfanello, offrendo loro quel poco che la parrocchia poteva: un piatto di minestra e una spalla su cui piangere, cose che Clara accettò solo quando il sacerdote accettò a sua volta che, in cambio, la donna si occupasse della canonica, diventando così a tutti gli effetti la prima, e più giovane, perpetua della parrocchia di San Nicola in Dergano. Fu una soluzione dalla quale non nacquero malignità che altrimenti sarebbero corse tra il popolo, sia per l’altissima morale della vedova Clara sia per l’alto concetto che il parroco aveva della sua missione e per la sua età: lo ritroviamo infatti sul letto di morte, da nessuna malattia affetto se non l’umana necessità del ricambio fisiologico, nell’anno 1739.

In quell’anno Clara era una ancor bella donna che si avviava in serenità verso la vecchiaia mentre Ferdinando, cresciuto all’ombra delle parole e delle prediche del parroco che li aveva accolti, seguiva uno spirito missionario che aveva sviluppato e fortificato nel corso del tempo: pur non abile come suo padre, aveva ridato vita al forno e il resto del tempo lo passava con la madre aiutandola in parrocchia, soprattutto nei lavori di maggior impegno.

In breve tempo il vecchio parroco venne sostituito da un più giovane pastore e la vita sembrò riprendere come prima sino allo scoppio del conflitto coloniale conosciuto con il nome di guerra anglo-spagnola e segnatamente nella fase in cui stante il Patto di famiglia tra Spagna e Francia, il cardinale Fleury decise di inviare nelle Indie occidentali una formazione navale francese in appoggio agli iberici.

Ora, il nuovo parroco nominato in San Nicola in Dergano si chiamava Jean-Marie Stabiliti, di padre ligure e di madre francese: questa origine spiegherebbe, spiega anzi, l’inopportuna enfasi con la quale introdusse nei conversari privati e soprattutto nelle prediche che imboniva ai credenti che si riunivano nella sua chiesa focose parole a favore dell’intervento francese, spesso partendo per la tangente e producendosi in infinite tirate contro coloro che, nemici della Francia per le più varie ragioni, erano, a suo dire, nemici dello stesso Dio Onnipotente e contro le sue leggi.

Tale comportamento non mancò di stupire i parrocchiani in primis. E, insistendo in queste sue sparate patriottiche fuori confine, la fama di incontinente filo-francese di don Jean-Marie giunse anche in Arcivescovado, dove si ritenne opportuno a un certo punto di dover prendere provvedimenti. Ad avvisi, ripetuti, di rientrare nei ranghi, lasciando la politica a chi la praticava, il don rispose con brevi periodi di quiete e riprese dei suoi sproloqui sempre più carichi di invettive all’indirizzo dell’universo mondo anti-francese. Così che, insistendo nel suo sconsiderato agire, don Jean-Marie mise i suoi superiori nella condizione di doversi arrendere alla necessità di un drastico intervento: sospenderlo a divinis parve esagerato, prudenza animò i superiori del fanatico, a rischio di creare un pericoloso precedente.

Meglio, fu deciso, allontanarlo dalla parrocchia di San Nicola in Dergano e confinarlo in un luogo dove non avrebbe prodotto più di qualche tollerabile danno.

La scelta cadde su una piccola parrocchia che sorgeva sulla sponda occidentale del lago di Como, Gera Lario, pertinente alla diocesi di Como a sua volta suffraganea del patriarcato di Aquileia sino alla soppressione di questa, avvenuta nel 1751.

Il fanatico don Jean-Marie pose piede in quella terra sconosciuta nell’anno 1741, e non fu solo. Gli furono compagni nell’esilio Clara, che non aveva avuto cuore di abbandonarlo a sé sospettando che il diavolo a volte si impadronisse dei suoi pensieri, e il non più giovane Ferdinando che, al pari del sacerdote ma per ragioni decisamente diverse, non avrebbe saputo cavarsela senza una donna al seguito.

Gli abitanti di Gera, poco più di ottocento all’epoca, li accolsero senza le pompe della città. Gente dura, quella, figlia di una terra altrettanto dura. Gente usa a improbe fatiche quotidiane per sbarcare il lunario, per ottenere ciò che altrove sarebbe giunto impiegando la metà del tempo e del sudore. Gente perlopiù silenziosa, pensierosa, a volte decisamente misteriosa. Pure le donne, che erano la quota preponderante tra i fedeli che frequentavano la chiesetta di San Vincenzo, mostravano di non condividere il luogo comune di persone inclini alla chiacchiera e al pettegolezzo.

Come a rimborso del tempo che s’erano lasciati alle spalle, dei legami d’affetto e di amicizia troncati per ordine superiore, il nuovo luogo offrì ai tre gli spettacoli del lago e della montagna, ogni giorno nuovi secondi le condizioni del cielo e, fra i tre, a trarne i maggiori vantaggi fu proprio il filo-francese don Jean-Marie che nel giro di breve tempo sembrò tralasciare ogni fanatismo di marca transalpina per indirizzare la sua oratoria verso le bellezze, testé scoperte, del creato che divennero cifra e sostanza delle sue prediche con grande meraviglia del popolo dei fedeli per il quale le sue parole non svelavano niente di nuovo.

Clara nel frattempo invecchiava sensibilmente, Ferdinando, che aveva assunto il ruolo di sagrestano a tempo pieno, pure, cominciando a evidenziare qua e là qualche acciacco, a mo’ di campanello d’allarme.

L’umidità del lago, certo.

Mi si permetta una digressione personale, quel tanto per osservare che là dove certe incertezze di ossa e articolazioni sono spia dell’età anziana, non così possono essere ritenute in luoghi di lago, dove l’umidità assedia gli scheletri sin dalla gioventù, anticipando i danni della vecchiezza.

Fu l’insorgere di doloretti qua e là a spingere Ferdinando verso l’idea di accogliere in parrocchia una sorta di apprendista scaccino, al fine di allevare, istruendolo, il proprio sostituto. Una volta ottenuta l’approvazione del parroco, di comune accordo i tre decisero che il candidato avrebbe dovuto essere, oltre che giovane, un desolato tra i tanti che abitavano la montagna soprastante Gera, in modo da dare a lui la possibilità di salvarsi da una vita raminga e malavitosa.

La scelta cadde su un certo Dionigi Zampa, undicenne già fulminato da follia che si dice essere propria di quei di lago. Gli si attribuivano più genitori che capelli in capo ma nessuno poteva affermare con certezza di chi fosse figlio, così che veniva facile cucirgli addosso una genesi bestiale così come bestiale sarebbe stata la sua vita se non fosse stato associato a Ferdinando onde apprendere l’arte del sagrestano.

Dal profondissimo occhio azzurro, il Dionigi venne dapprima sgrezzato da Clara e avviato a una vita di costumi civili, educandolo allo stare a tavola, per esempio, senza usare le mani al posto delle posate oppure a espletare i suoi bisogni nel luogo comodo anziché, com’era uso fare, là dove capitava. Il famelico desiderio che lo animava fu, grazie alle quotidiane lezioni del buon Ferdinando, veicolato verso un calcolato uso delle energie: alle fatiche del Dionigi, nel frattempo cresciuto in scienza e coscienza, si devono plurimi lavori di ristrutturazione della chiesa e dei suoi pochi ma essenziali beni, quali orti e vigne, e pure un piccolo affresco, purtroppo oggi scomparso, di cui resta testimonianza nel registro parrocchiale e nel quale, è scritto, il giovanotto esprimeva, pur senza avere le stimmate dell’artista, un profondo sentire la vita.

Nel 1780, un anno prima della scomparsa di Clara, e con la benedizione di un don Jean-Marie completamente dimentico dei suoi ardori transalpini, il Dionigi si maritò.

Prese in sposa Marivergine Osoppi, di professione barcaiola, natia della terra di Lezzeno, che non ha da confondersi con quell’altra Lezzeno, sopra Bellano e sede del santuario dedicato alla Madonna che pianse lacrime di sangue, e non fu matrimonio scevro di chiacchiere.

Gli è che a quei tempi durava ancora la fola attorno alle donne nate in quel paese che le voleva streghe tanto che di costoro ben quaranta furono mandate al rogo nell’anno 1481. Il crudele costume ovviamente era sepolto nella notte di quei tempi oscuri, tuttavia la credenza sopravviveva, dura a morire, per la qual ragione la donna di Lezzeno era sempre sospetta e sospetto, rischioso, il maritarla come fece Dionigi.

Com’è, come non è, ci fosse o meno qualcosa di vero, il fatto è che il terzo figlio della coppia, Generoso, sembrò ridare credito alla leggenda.

I primi due, Semplice e Turanio, furono solidi lavoratori, com’è nella tradizione di quelle terre, minatore il primo, il secondo pescatore. In Generoso invece sembrò che non albergasse nemmeno un briciolo della buona volontà che animava i maggiori, come se Dionigi e Marivergine ne avessero esaurita la scorta impastando i primi due.

Generoso, per onor di cronaca, era nato nel 1793, poco dopo la dipartita di don Jean-Marie, sostituito da un sacerdote nato per caso in Canton Ticino, e lì vissuto pochi anni, ma di fatto italiano. Nel corso dei primi tempi il piccolo non aveva dato pensieri, non combinando altro che le monellerie classiche di quella fase di crescita. Fu solo quando il nuovo parroco di Gera Lario, don Scevro Attempati, volle assumersi il compito di istruirlo alle lettere e al far di conto poiché in lui vedeva il naturale sostituto del genitore, che Generoso cominciò a prodursi nelle prime ribellioni. La risposta di don Scevro a tanta intemperanza, reazione certamente improntata al bene del ragazzo ma che purtroppo ne provocò un irrigidimento di posizione, sortì effetti disastrosi. Educato egli stesso con duri sistemi, dapprima nella famiglia d’origine e poi in seminario, mise in atto quegli stessi metodi, così che perse definitivamente Generoso alla causa. Da allora in avanti sempre più frequenti si fecero gli scatti d’ira del giovane, le fughe senza meta con le quali stava lontano da casa per giorni tornando spesso irriconoscibile e senza spiccicare parola su dove fosse stato e cosa avesse fatto, i furibondi litigi in famiglia o fuori, in paese, il più delle volte scatenati a partire da futili motivi. Anche ciò, oltre al tempo che passava, contribuì a erodere la salute dei genitori di Generoso: la prima ad andarsene fu Marivergine seguita a breve distanza dal Dionigi che morì di crepacuore senza la sua sposa adorata.

Toccò poi allo stesso Generoso andarsene.

Nel senso che don Scevro, alle prese con l’orfano, comprese che non potendolo domare nemmeno poteva tenere con sé un simile soggetto, e lo cacciò abbandonandolo al suo destino.

Il posto di sagrestano non restò vacante a lungo, giusto il tempo per valutare la situazione che diede a don Scevro il modo di concludere che non doveva fidarsi delle stimmate caratteriali della popolazione locale.

Si riferì piuttosto a una famiglia con la quale intratteneva rapporti epistolari, residente nella Svizzera Romanda, nel territorio del cantone del Giura, affinché gli segnalassero un giovane a modo che potesse affiancarlo quale sagrestano.

Parrebbe di capire che la richiesta di don Scevro cadesse quale grazia dal cielo, non solo sulla famiglia cui giunse ma sull’intera comunità di una piccola frazione dalle parti della più rinomata Le Chaux de Fonds: poiché l’intera, piccola comunità del paesello decise di inviare al richiedente tal Sebastien, già minato dall’alcol e preda di visioni a volte mistiche a volte demoniache.

Era il 1824 quando questo Sebastien giunse, sobrio, sulle rive del lago di Como, a Gera Lario.

Per un anno circa, forse anche grazie alla nuova aria che respirava, il giovanotto non diede segno delle turbe che lo affliggevano, o se lo fece non ne abbiamo notizia. Piuttosto, il suo bell’aspetto gli procurò il benvolere della popolazione femminile di Gera Lario e qualche malignità da parte di quella maschile che interpretava il suo passare il tempo tra la canonica e la sagrestia come segno di scarsa mascolinità o peggio. Tant’è che, verso la fine del primo anno della sua permanenza sulle rive del Lario, don Scevro scrisse una lettera di ringraziamento, di cui resta copia, ai suoi corrispondenti romandi dando loro il merito dell’oculatezza e della bontà della scelta effettuata. Fu una sorta di segnale grazie al quale tutta la malvagità che si annidava sotto il bell’aspetto di Sebastien si scatenò. Cominciarono così anni tribolati per il povero don Scevro e per la popolazione tutta di Gera Lario.

Nel corso di quel tempo, don Scevro più e più volte chiuse entrambi gli occhi sulle malefatte di Sebastien, illudendosi che le visioni del giovanotto e le ubriacature pressoché quotidiane, che a quelle visioni davano forza e sostanza, fossero eventi transitori. Ma non poté negare l’evidenza quando si avvide che il giovane, non potendo onorare i debiti che aveva lasciato in tutte le osterie, vinerie o grotti del luogo, saccheggiò anche la scorta di vin santo.

Fu allora che scrisse ai sodali romandi lamentando la pessima qualità del soggetto che gli avevano mandato.

Quelli risposero, e lasciarono il povero sacerdote con un palmo di naso: scrissero infatti che Sebastien fin che era rimasto tra loro era sempre stato modello di virtù. Se, quindi, adesso dava scandalo con i suoi comportamenti, la colpa era da ricercare altrove: forse proprio nella terra e tra le genti di quella terra che era diventata la sua patria adottiva.

Il povero sacerdote si arrese alla risposta. Rifletté che in quelle righe c’era una prova cui lo spingeva il Creatore, forse anche una punizione per le manchevolezze del suo agire. Non poté sottrarsi comunque alla responsabilità che si sentiva addosso, quella di avere tra le mani il destino di un essere umano, per quanto malvagio come Sebastien e allora divisò di costringerlo a vita morigerata colpendolo là dove l’intero genere umano dimostra purtroppo di essere sin troppo sensibile: nel portafoglio. Avvisò quindi il disgraziato che gli avrebbe passato il soldo quotidiano solo quando si fosse presentato a sera in condizioni di sobrietà, mentre l’avrebbe condannato a pagare i giorni di ebbrezza trattenendo la paga. Il risultato fu ambivalente e, infine, come si vedrà, disastroso.

Sebastien non rinunciò al viziaccio. Tuttavia, dovendo mantenere la sobrietà per intascare i soldi che gli sarebbero serviti a guadagnare l’ebbrezza, inanellò rosari di giorni in cui sembrava ritornato un essere normale opponendovi poi, quando il portafoglio finalmente glielo permetteva, tridui di etanolico spaesamento. Con questo altalenante andamento trascorsero gli anni fino a che si giunse alla tragica estate 1844 che segnò una svolta nel destino di Sebastien, in quello della parrocchia di Gera Lario e, di conseguenza, in quella di Bellano.
Sera calda, profumata di lago, impreziosita da un cielo puntinato di stelle e allietata dalla musica dell’onda, come spesso, qui da noi rivieraschi, si può apprezzare. Sera che invitava alla gioia di ritrovarsi per passeggiare o chiacchierare o anche festeggiare qualsivoglia evento che possa giustificare il riunirsi casa per casa oppure pubblicamente e stare piacevolmente insieme.

Era una sera di quelle insomma. E l’occasione per ritrovarsi in festa tra geresi era fornita dal fatto che quasi in ogni famiglia, tra i presenti o i trapassati, c’era sempre qualcuno che si chiamava Giovacchino, santo di cui il calendario celebrava la ricorrenza. Quando l’allegria dei convitati stava ormai raggiungendo il massimo e una raffazzonata orchestrina, in cui svettava l’immancabile fisarmonica, si preparava a offrire musichette per balli inventati, quando la luna quasi piena disegnava una sorta di argenteo sentiero che univa le due sponde del lago, spingendo coloro tra i più esaltati alla fantasia che sarebbe stato possibile percorrerlo senza bagnarsi, quando anche i mariti più arcigni erano predisposti a sguardi benevoli verso chiunque osasse invitare al ballo le proprie spose, nel cielo sopra Gera si stese l’inquietante suono delle campane a martello.

Disgrazie annunciava quel suono.

Fosse incendio di casa, uomo o donna dispersi sulla montagna o spariti nel lago, bimbo che non aveva fatto ritorno: qualunque cosa potesse turbare la pace e la serenità della piccola comunità aveva nel suono delle campane a martello il suo nero ambasciatore.

Ai lugubri rintocchi ciascuno fece l’appello dei propri affetti, gli occhi degli uomini corsero alle case e più su, alla montagna, dove avevano stalle e animali. Quando il dubbio su ciò che poteva essere successo cominciò a correre di bocca in bocca, Sebastien, ubriaco marcio, gli occhi fuori dalle orbite, i capelli scomposti, con voce roca e alito di cantina comparve davanti al popolo gerese gridando che il diavolo si era impossessato della torre campanaria e stava suonando l’arrivo di disgrazie incipienti.

Sebastien, oltre all’anchilosato don Scevro, era l’unico ad avere accesso alle campane. La sua presenza in piazza, oltre all’aspetto veramente infernale, non lasciò dubbi circa le sue parole. La frizzante allegria che sino a poco prima animava i geresi si trasformò in angoscia senza fondo.

Fu, mentre le campane a martello continuavano a tempestare il cielo buio con i loro rintocchi spietati, come se tutto ciò che uomini e donne temevano dovesse realizzarsi di lì a poco: le gravide ebbero il timore di essere sul punto di dover partorire i loro frutti immaturi, i vecchi di non poter più vedere il nascere del sole, gli uomini ancora in età di lavoro sentirono il dolore di un albero che cadeva loro addosso spezzando la schiena oppure il lento soffocamento dell’annegare nelle acque del lago. Le lacrime dell’addio offuscarono lo sguardo di tutti quando, mentre Sebastien approfittando dello sconcerto che il suo annuncio aveva creato andava scolando ciò che gli allegri commensali avevano lasciato sulle improvvisate tavole della loro cena, comparve, avvolto in una mantella poiché ormai gli anni lo avevano costretto a patire il freddo qualunque fosse la stagione, il buon don Scevro. Cercando di vincere con la sua povera voce il doloroso brusio della folla e il martellante suono delle campane, chiese cosa diavolo fosse successo e gli fu risposto che appunto quello era accaduto: il diavolo si era impossessato delle campane e suonava l’annuncio di inimmaginabili malefici.

Alla notizia il sacerdote sentì nell’animo un fuoco di gioventù.

A vanvera, forse, aveva predicato lungo tutti gli anni del suo sacerdozio?

Di cos’erano foderate le orecchie dei suoi parrocchiani?

Di salame forse?

O vi era cresciuto il muschio che orienta i viaggiatori?

O improvvisa cecità dell’anima ne aveva obnubilato la fede?

«Il diavolo» affermò «non esiste!»

La cattiveria e la meschinità dell’uomo creavano il diavolo e solo l’uomo rivolto al bene poteva sconfiggerlo.

Va bene, sorse una voce dal mormorio generale.

Ma se il campanaro addetto e lui, gli unici due che avevano accesso alla torre, erano lì, chi mai stava assediando il cielo sopra Gera con quell’infelice, terrificante scampanare?

«Non certo il diavolo» rispose don Scevro.

Non restava altro da fare che andare a vedere. E il sacerdote si propose a capo del manipolo di uomini, se ancora c’erano uomini di fede in quel paese!, che avrebbe svelato il mistero e riportato la pace. Partito il gruppetto, mentre i timorosi si stringevano l’un l’altro come temessero di non veder più ritornare nessuno di quei coraggiosi, un silenzio che sarebbe stato irreale se non fosse stato per il martellare della campane divenne, poco dopo, tale.

D’incanto le campane tacquero.

Quindi un altro rintoccare, più lieve, quasi amico, suono già familiare, rumore che pareva… anzi, era il cadenzato picchiare di uno zoccolo d’animale sul selciato invase l’aria. E ancora, subito dopo il rumore, comparve il diavolo in persona, o almeno così parve al popolo in attesa, sotto le smentite spoglie di un becco.

Giova, a chi non sa di dialetto laghée, che il becco, o bècch nel vernacolo, è il sostantivo con cui viene indicato il maschio della capra.

E appunto un becco, o caprone, comparve sotto gli occhi degli astanti che in un primo momento lo presero per incarnazione del diavolo e subito, al ritorno di don Scevro sempre al comando del suo manipolo, compresero invece che quello che avevano visto altro non era che un vero e proprio bècch, furtivamente ma senza colpe entrato nella torre campanaria, lasciata incautamente aperta dall’ebbro Sebastien, e quindi trovatosi imprigionato nelle corde delle campane: da cui, nel tentativo di liberarsi, col risultato di ingarbugliarsi sempre più, il lugubre concerto.

Al sospiro di sollievo che si levò concorde dalle gole di vergini, gravide, uomini più o meno giovani e anziani che di morire nottetempo non avevano desiderio alcuno, seguì il pensiero comune che ormai la misura era colma.

Cioè, Sebastien aveva combinato l’ultima.

Nemmeno nella più riposta madia si sarebbe potuto trovare quel poco di pazienza che avrebbe permesso di sopportarne la presenza entro i confini del paese anche e soltanto per un’ora.

Fu una sorta di condanna all’esilio espressa all’unanimità e senza bisogno di parole. E il campanaro, pur nella foschia dei suoi pensieri, percepì immediatamente che il suo destino stava drasticamente per cambiare. Ebbe anzi un fulmine di lucidità, quando lesse nel pensiero degli uomini più audaci che buono e giusto sarebbe stato toglierlo definitivamente dal mondo, appendendolo alla quercia più lontana oppure affogandolo come un ratto. Pure don Scevro intuì che qualcosa di grave sarebbe potuto succedere e che lui solo poteva opporvisi.

«Scappa figlio mio» gli urlò evangelicamente.

Scappa, e che di te non compaia più nemmeno l’ombra su queste terre.

Il disgraziato prese al volo il consiglio. Raggiunta la riva di Gera Lario, mentre don Scevro tratteneva i malumori dei suoi parrocchiani, si gettò sulla prima barchetta che gli giunse a tiro e spingendola in acqua iniziò un viaggio della cui fine non aveva la minima idea. Era senza remi, usò le mani per spingere il legno avanti, nel buio dell’acqua e del cielo sopra di lui, senza chiedersi dove stesse andando e a un certo punto abbandonandosi al sonno, lasciando che il caso decidesse per lui.

Quando, la mattina seguente, si svegliò, si trovò faccia a faccia con un viso torvo e inquirente che gli aveva appena chiesto cosa diavolo ci facesse steso in una barca, bagnato di guazza notturna, senza remi e conciato come se fosse stato a macero in uno stagno.

«Dove sono?» chiese Sebastien.

«Vi ho fatto una domanda io, per primo» rispose quello.

Solo dopo aver bofonchiato parole che al viso torvo e inquirente suonarono pari a quelle di un alienato, Sebastien apprese che la corrente del lago e la fortuna l’avevano portato ad approdare su una riva del paese di Bellano.

Al soccorso del naufrago provvide dapprima il farmacista Magi Giuseppe, speziale di gran fama su tutto l’alto lago per l’estrema varietà di medicamenti nazionali ed esteri di cui era sempre fornito: il Magi, intuendo che si trattava di un caso di ipotermia, cui non era estraneo l’esagerato quantitativo di vino ingurgitato dal soggetto, si astenne dal fare alcunché e pretese che sul posto intervenisse il collega di allora, Gerolamo Sicomoro.

Bellano a quel tempo non disponeva ancora dell’attuale, delizioso ospedale, dedicato alla memoria di re Umberto I, la cui vistalago contribuisce insieme con la bontà del servizio a rimettere in salute sia rivieraschi che bellanesi. Gli ammalati di una certa serietà venivano avviati verso centri più grossi, dotati di nosocomio, mentre gli altri restavano a casa, affidati alle cure dei colleghi di campagna.

Sebastien fu lì per subire la sorte dei primi ma infine il buon collega Sicomoro, giudicando che il viaggio di trasferimento avrebbe potuto dargli il colpo di grazia, finì per decidere di non farlo muovere dal paese e, poiché non aveva casa, si affidò al consiglio del prevosto di allora, don Erasmo Alberosi, affinché trovasse una sistemazione al Sebastien.

Numerose allora, come oggi, come sempre, erano le dame di carità che per le più varie ragioni ronzavano attorno alla canonica. Alcune spinte da sinceri sentimenti di carità cristiana, altre da sentimenti di più pragmatica origine.

Sebastien, per la sua fortuna, finì nella casa di una dama che, pur animata dalla purezza del sentire la necessità di correre in aiuto del prossimo giunse poi ad avvertire come quello stesso prossimo era non solo spirito, ma anche carne e ossa.

Si chiamava costei Natalina Errabondi in Schinetti, vedova di mineur e con sulle spalle un figlio dodicenne, Aristide, che manteneva grazie alla carità del prevosto e a una miriade di lavoretti che andavano dall’aggiustare scalfarotti e stracci di camicie al fare lavori domestici ovunque le capitasse.

Il Sebastien si ricoverò nella sua casa, garantendo il prevosto per le spese mediche che il Sicomoro gli avrebbe prestato. La grave ipotermia venne rapidamente e brillantemente risolta dal valente collega che, una volta tratto il paziente dal pericolo di morte, si trovò a che fare con un soggetto confuso, che a stento ricordava il proprio nome e gli eventi che lo avevano condotto ad attraversare il lago di notte su una barca senza remi per giungere sulle rive bellanesi in stato di piena incoscienza.

Che fosse vero oppure che il Sebastien, per non doversi trovare di lì a poco sulla strada senza arte né parte, mentisse spudoratamente fingendosi smemorato, fatto sta che nessuno mise in dubbio che fosse afflitto da una grave forma di amnesia, dalle cui nebbie uscì solo il ricordo del lavoro che aveva fatto sino a quel momento: il campanaro.

Ne fu felice il prevosto apprendendo la notizia, poiché ciò significava aver dato asilo e soccorso a un soggetto cui non mancava certo l’istruzione nei precetti di santa madre chiesa. Ne fu felice anche la vedova Schinetti poiché, mentre Sebastien migliorava a vista d’occhio senza peraltro riuscire a ricordare niente di ciò che era successo, aveva cominciato a valutarlo anche come uomo e non solo, non più, come ramingo bisognoso di assistenza. Della quale, alla fine, e secondo l’illuminato parere del collega Sicomoro, il Sebastien smise davvero di aver bisogno.

Era guarito ormai, ritornato in forze.

A futura memoria della misteriosa avventura che aveva passato gli restavano due precisi segni: l’amnesia e una forma di artrite vagante.

«Gli faranno compagnia sino alla tomba » disse il medico al prevosto, annunciando la guarigione di Sebastien e presentando l’ultima parcella.

“E adesso?” si chiese il sacerdote una volta rimasto solo.

Che fine avrebbe fatto il naufrago restituito alla vita?

Domanda che tormentò don Erasmo per giorni e giorni. Insinuante, pervasiva, cattiva a volte.

E adesso?

Perché se lui pubblicamente s’era assunto la responsabilità di infilare un uomo, malato s’intende!, nella casa di una vedova ancora in età giovane, adesso sentiva su di sé ben altra responsabilità: quella di dire a quello stesso uomo che era giunta l’ora di comportarsi come tale e restituire la povera vedova al figlio e ai suoi doveri di madre, evitando che nel paese nascessero tanto inutili quanto dannose chiacchiere.

Se l’amnesia intanto, vera o falsa che fosse, non disturbava minimamente Sebastien, che del futuro non si dava pensiero, l’artrite invece cercava spesso, quasi quotidianamente, di far sentire la sua presenza.

Soprattutto quando la vedova Natalina, sempre più felice di aver di nuovo un uomo in casa, e bello come il Sebastien, gli chiedeva un aiuto domestico, fosse il sollevare un secchio di carbone oppure chinarsi per raccogliere da terra qualcosa, un dolore urente azzannava questa o quell’articolazione di Sebastien, bloccandogli il movimento e spingendolo a emettere grida alle quali il giovane Aristide reagiva ridendo come un matto.

«C’è poco da ridere» lo riprendeva allora sua madre, proibendo immediatamente a Sebastien di insistere nel movimento e sostituendosi a lui nell’incarico che poco prima gli aveva assegnato.

Fu così, con tanto, quotidiano esempio, che nella testa del ragazzo si insinuò il pensiero di come potesse essere facile scansare ogni fatica.

Bastava fare come quel soggetto che era capitato in casa loro: bloccarsi improvvisamente in pose il più delle volte ridicole, emetter versi come di cane cui sia stata pestata la coda e il gioco era fatto, qualche stupido sarebbe corso in aiuto, sollevandoti dal lavoro.

Pensieri farciti già da una piccola malizia ma, oso osservare, che non sarebbero maturati sino a concretizzarsi in una vera e propria “artrite tattica” della quale lo scritto che scorre tenta di spiegare l’origine, se non ci fosse stato l’intervento decisivo e fatale del prevosto don Erasmo Alberosi.

Il quale, certo animato dalle migliori intenzioni e in obbedienza ai precetti della chiesa che da anni et annorum serviva con dedizione e cieca fede, sentendo a un certo punto odor di peccato nella prolungata convivenza della Natalina con il Sebastien, volle rompere gli indugi e, presentandosi ai due, sparò loro in faccia la domanda che lo tormentava da mesi.

E adesso?

Adesso che lui era guarito, adesso che non aveva più bisogno di cure, adesso che era ritornato uomo a tutti gli effetti, cosa voleva fare?

Voleva forse che la gente dicesse che il diavolo era entrato in quella casa dando vita a una convivenza indecente e scandalosa e che lui, sacerdos in aeternum, gli aveva aperto la porta?

«Non sia mai» rispose per entrambi Natalina.

«E allora» la fulminò don Erasmo, «sposatevi e che sia finita!»

«Lo faremo» ribatté con entusiasmo la donna.

Ma il prevosto non aveva ancora terminato.

«E tu trovati un lavoro» disse a Sebastien.

Che toccasse a lui trovarglielo non gli fu affatto chiaro al momento. Solo qualche tempo dopo, quando fu invece chiaro che l’artrite precludeva a Sebastien uno qualunque dei lavori di cui c’era larga disponibilità in paese, don Erasmo dovette intervenire per sanare una situazione che, pur non volendo, aveva contribuito a creare con le sua mani.

Non che ne avesse strettamente bisogno ma, pur di tornare a dormire sonni tranquilli, divisò che nelle sue possibilità c’era solo quella di offrire al Sebastien un incarico di campanaro cui, oltre al magrissimo stipendio che la parrocchia poteva passare, andavano le mance e le prebende di coloro che, vuoi per un matrimonio oppure per un funerale, volevano un concerto di campane.

La proposta forse risvegliò in Sebastien esperienze vissute in quel di Gera e forse anche il ricordo delle fluviali bevute fatte. Di fatto la lunga astinenza dopo lo sbarco a Bellano gli aveva tolto dai pensieri quanto gli fosse piaciuto baciare le labbra di un coccio pieno di vino. E circa il suonar campane non gli sarebbe servito troppo tempo per rispolverare l’arte.

Accettò quindi e, visto che un lavoro purchessia era una conditio sine qua non onde celebrare le nozze poste tassativamente dal prevosto, il matrimonio infine si fece.

A questo seguirono lunghi anni in cui molte cose accaddero, fatti che vanno oltre le intenzioni del presente resoconto.

Ci preme tuttavia far notare come, crescendo con un simile esempio in casa, l’allora piccolo Aristide non potesse uniformare il proprio carattere a quello: mai, in verità, il giovane Schinetti credette alla malattia del patrigno, convinto piuttosto che quello fosse un suo sistema particolare per evitar fatiche e maturando di conserva l’idea che le donne fossero al mondo con il compito di evitarle all’uomo, così come vide fare nella sua casa in centinaia e centinaia di occasioni.

Quando, a sua volta, ereditò il mestiere paterno, diventando scaccino a tempo pieno, non fece altro che applicare l’insegnamento ricevuto.

La conclusione ci pare logica, inoppugnabile. Giustifica, se così si può dire, l’artrite tattica di Aristide Schinetti, di professione sagrestano, e la sua scarsa attitudine alle fatiche. E spiega anche come la sua fama di impenitente lazzarone gli impedì di trovare una moglie che, se fosse caduta nel tranello del matrimonio, avrebbe dovuto sostituirsi a lui nei compiti più gravosi.

Con ciò riteniamo di avere concluso il nostro resoconto, scusandoci con i lettori per le lacune che esso presenta: non possono essere imputate a nostre superficialità, piuttosto alla vanità delle cose umane di cui spesso le tracce vanno perdute.

Ciò detto e scritto in Bellano, dal 20 al 25 ottobre 1920.

In fede

Aristarco Pathé

Medico chirurgo e storico locale

Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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