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Suo padre gli aveva dato del cretino senza rimedio per aver, così come il Novenio gliel’aveva raccontata, accidentalmente rotto il bottiglino dell’intruglio e rinviato la somministrazione del veleno. Non contento, l’Esebele gli aveva fatto notare che un uomo come lui, cioè senza coglioni, anzi, con un coglione solo e per di più secco come una noce, per donne come la Giovenca sarebbe stato un vero spasso: ricca e bella, l’avrebbe riempito di corna senza che lui avesse potuto dire alcunché, condannato a essere succube per l’eternità.
Alla prospettiva di doversi grattare la fronte per il resto della vita il Novenio aveva reagito ed era tornato a proporre alla giovane la soluzione del loro problema con il ricorso al velenoso oleandro. Giovenca, notando un’insolita determinazione nel giovanotto, aveva chiesto tempo per riflettere e alla sera, oltre alle solite augurali fantasie, aveva aggiunto preghiere rivolte a santa Rita da Cascia, che se la prendesse lei la Primofiore, senza obbligarla a mezzi estremi per liberarsene.
Il Novenio nel frattempo, per dimostrare che non aveva parlato a vanvera, aveva pressoché defogliato quasi completamente l’oleandro di villa Coloni, per preparare una nuova pozione seguendo una modalità diversa dalla precedente, suggerita sempre da suo padre Esebele: le foglie messe a macerare in acqua di stagno con l’aggiunta di spezie e odori, cui attingere nel momento stesso dell’azione.
Anche la Primofiore, però, aveva mutato atteggiamento e ciò non era sfuggito alla Giovenca che l’aveva sotto gli occhi tutto il santo giorno. Lungi dal sospettare quello che si stava tramando alle sue spalle, la donna era ulteriormente regredita nel suo stato di malattia. Dalla sua stanza non usciva praticamente più e aveva cominciato a emettere versi che la Giovenca non aveva impiegato molto a interpretare per quello che in realtà erano: il gracidare delle rane, che la folle emetteva per lunghe ore durante la notte riempiendo con una voce singolarmente piena l’intera villa. Sorta di tortura cinese per le orecchie di Giovenca alla quale la Rigorina, messa a parte del tormento, aveva dato una spiegazione personale, facendo intendere che l’involuzione della Primofiore, grazie a quel continuo gracidare, fosse arrivata alla fase dell’infanzia.
Bisognava sapere infatti che la Primofiore era figlia di un commerciante di ghiaia e originaria della terra di Gera Lario, dal cui materiale il paese aveva appunto tratto il nome. E che da quel popolo, invero assai primitivamente, le rane erano venerate come fossero veri e propri oracoli. Popolo di pescatori d’ogni sorta di pesci, delle taragòle o squaquere, come venivano indicate, gli abitanti di Gera avevano un sacro rispetto, tanto che non si erano mai azzardati a considerarle come possibile cibo, sembrando loro un’enormità cucinare bestiole dotate di gambe e braccia e soprattutto di voce. Dal verso di queste era appunto nata la leggenda che in esso si nascondessero profezie circa gli eventi meteorologici, l’opportunità o meno di mettersi per lago o gettare le reti, sfalciare il fieno oppure seminare questo o quell’ortaggio. Giocoforza, la venerazione per quell’animale investiva anche la fantasia dei bambini per i quali era sommo divertimento imitarne il verso raggiungendo, a furia di esercizio, vertici di perfezione inimmaginabili.
Era evidente, aveva concluso la Rigorina, che la povera pazza nel suo declino stava rivivendo la fanciullezza. Se questo fosse un segnale che si stesse avviando alla fine oppure verso un nuovo inizio, sarebbe stato difficile dire.
Giovenca, esasperata dalle notti passate come se fosse in riva a uno stagno, aveva tralasciato le fantasie sull’avvenire e rinforzato gli appelli a santa Rita.
Ma santa Rita s’era ben guardata dal prendere in considerazione le richieste della Giovenca.
Non restava quindi che riflettere e convincersi che era il momento di passare all’azione, usando il metodo suggerito dal Novenio, circa la liceità del quale la giovane aveva cominciato ad avere opinioni accomodanti. C’era, tuttavia, un ostacolo che pareva insormontabile.
Chi, ad esempio, avrebbe stretto nella sua mano la pozione assassina da dare alla Primofiore? Chi, pur se il consesso civile non avesse scoperto nulla, si sarebbe macchiato di un simile atto davanti all’alto dei cieli?
Il Novenio, figura maschile ed estranea al nebuloso mondo della Primofiore, non era da prendere in considerazione, a rischio di scatenare nella matta pericolose reazioni o rifiuti.
Giovenca invece era fin troppo di casa. Se era vero che la Primofiore da lei avrebbe accettato qualunque cosa, lo era anche che, in caso di imprevisti, i primi sospetti sarebbero caduti su di lei.
L’ideale, aveva osservato Novenio, sarebbe stato che entrambi fossero ben lontani dal luogo della malefatta, e magari anche da un po’ di tempo, in modo che niente e nessuno li potesse collegare al fatto. Lui ad esempio poteva offrirsi a don Parigi come aiutante senza portafoglio del campanaro Dondola, cui l’età rendeva molto complesse la maggior parte delle sue mansioni, e così si sarebbe guadagnato un eventuale testimone coi fiocchi.
Ma lei?, aveva chiesto.
Poteva forse andarsene da qualche parte e lasciare sola in casa la Primofiore?
«Sì» aveva risposto Giovenca.
«Si?» aveva obiettato il Novenio.
E chi allora avrebbe somministrato la fatale bevanda alla matta?
Giovenca aveva riflettuto brevemente.
«Il nome non lo so ancora» aveva poi risposto, «ma qualcuno lo farà.»
Con l’aiuto della Rigorina che, pur non diventando vero e proprio sicario, sarebbe stata una complice perfetta.