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«Mistero odoroso, mistero gaudioso» canticchiò tra sé la Rebecca affrontando con grazia il quarto lavarello.
Donna colei che era entrata poco dopo la brillantina e alla quale, come prima, aveva aperto il signor prevosto.
Donna sicuramente, perché nessun maschio che volesse dirsi tale poteva andare in giro, e presentarsi in canonica, così olezzante di profumo. E di quel profumo soprattutto del quale, pur non sapendo come si chiamava, poteva con quasi assoluta certezza dire, facendo nome e cognome, chi ne abusava tanto da aver saturato la carrozza del convoglio dove s’era seduta, finta destinazione Monza.
Le squame del lavarello cadevano ancora rilucenti di lago nel lavello. Ne fosse stata capace, Rebecca avrebbe fischiettato la sinfonia di quel mezzo mistero risolto e quando, ben venti minuti dopo il profumo anche la brillantina, sbattendo la porta come se fosse stato in un trani qualunque e non in canonica, se ne andò, si predispose a cogliere nel signor prevosto segni e sintomi che le avrebbero consentito di riempire il vuoto dell’altra metà di quel mistero…
«Gioioso?» disse tra sé cercando l’aggettivo adatto.
Oppure festoso.
O goloso.
E perché non sfizioso?
Perché l’aggettivo giusto era un altro. Non era in un vocabolario, ma sulla faccia del signor prevosto.
Segni e sintomi di quel mistero erano lì, nel pallore tendente al verdognolo che aveva preso possesso delle guance del sacerdote, nello sguardo che non aveva niente da invidiare a quello dell’ultimo lavarello squamato.
Doloroso, insomma, il mistero.
«Cos’è successo?» chiese la perpetua.
«Niente» rispose il prevosto.
Con quèla fàcia lì?
«Figuràs!» scappò detto alla donna.