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Se don Pastore aveva bisogno di un’ultima spinta per procedere all’attuazione del piano di riserva, la trovò nelle borse sotto gli occhi che la Stampina gli offrì la mattina del 6 gennaio 1916 attorno alle otto.
Viola, lo stesso colore del vino che vendevano al Circolo dei Lavoratori. Spettrali anche, sul fondo di un viso pallido come il bianco dell’uovo.
Aprì lui la porta. La Rebecca era intenta alla cottura di un cotechino e non aveva sentito il campanello.
«Entrate» disse.
Poi: «Venite» facendo strada verso lo studio.
Quindi: «Accomodatevi» indicando alla Stampina la sedia davanti alla sua scrivania.
Infine: «Ditemi» anche se immaginava perfettamente quello che stava per udire.
Con indosso un pastrano che suo marito non usava da tempo, il capo chino, le mani sulle cosce, la donna sembrava una rappresentazione del dolore.
«Così non si può andare avanti» disse d’un fiato.
«Cos’è successo?» chiese il sacerdote.
La donna lo guardò con un’aria di ironica tristezza.
«Volete saperlo?» chiese.
«Siete venuta per quello, no?»
«Certo.»
Ecco, allora, quello che era successo.
Che lei era rimasta in piedi la notte ad attendere il Geremia, uscito per la festa. Che anziché il figlio, quando non mancava che poco al sorgere dell’alba, aveva visto giungere alla porta di casa sua la figura intabarrata del maresciallo Citrici sbarbellante per il freddo, il quale le aveva comunicato che sarebbe stato inutile attendere il ritorno del Geremia poiché l’aveva fatto chiudere nella camera di sicurezza della caserma. Alla notizia aveva reagito chiedendo al maresciallo se il Geremia l’avesse fatta grossa. Rassicurata su ciò, l’aveva pregato di farglielo vedere e nonostante lo stesso Citrici le avesse detto che non era il caso, aveva infine ceduto mormorando una cosa come “Peggio per voi”. Era quindi andata in caserma per trovarsi faccia a faccia con quello che sembrava il Geremia ma forse no.
«Come no?» interloquì il prevosto.
«Non mi ha nemmeno riconosciuta» rispose la Stampina.
Sdraiato sul pancaccio, gli occhi, sgranati, fissi al soffitto, delirava forse, emettendo versi da gatto, sordo ai richiami suoi e del Citrici.
«Inoltre puzzava da fare schifo» aggiunse la donna.
«Vino?» chiese il prevosto.
«Piscia» chiarì lei.
«Adesso dov’è?»
«Ancora là.»
Il maresciallo le aveva spiegato che l’avrebbe lasciato andare solo dopo che fosse ritornato sulla Terra. Però, già che lei era lì, aveva tenuto a dirle che bisognava pensare a far qualcosa per quel giovanotto perché a suo giudizio si stava mettendo su una strada che non portava a niente di buono. Lei aveva promesso drastici provvedimenti, ma così tanto per dire. Brancolava nel buio.
Cosa fare?
«Lo ammazzo?» chiese la Stampina.
Il prevosto spazzò l’aria con la mano, non era proprio il momento di scherzare.
«Abbiate fede» disse.
«Sempre avuta.»
«E lasciatemi fare.»
«Quando?»
«Presto» assicurò il sacerdote.
Senza dire altro, la donna si alzò e uscì. Il paese dormiva ancora. Qualche gatto miagolava per la fame. Solo allora la Stampina riuscì a piangere.