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Il maresciallo Citrici aveva accettato di chiudere un occhio.
«Tutti e due, anzi» aveva puntualizzato, «e solo perché me lo chiedete voi. Ma alle vostre pecorelle chi ci pensa? Chi le convince?»
«Quello è affar mio, non vi preoccupate» aveva risposto il sacerdote ringraziando il carabiniere e finalmente rientrando in canonica.
Dove, in corridoio e fremente di sdegno, lo aspettava la perpetua. La prima, tra le pecorelle, da convincere al perdono.
«Visto che scempio? Che diaolàda?» esordì la donna.
«Rebecca, vi prego!» si premurò di frenarla il prevosto le cui idee avevano subìto una piccola rivoluzione.
Se le cose stavano così, infatti, con la Ficcadenti vedova, la seconda idea, quella di diabolica ispirazione, diventava non solo praticabile ma quasi necessaria.
Certo, sarebbe stato indispensabile avvicinarla, spiegarle il perché e il percome della proposta che le avrebbe fatto, sperando di trovare in lei una persona consenziente e collaborativa.
«Voglio credere che il signor maresciallo abbia intenzione di fare qualcosa contra quell’asasìn!» sbottò di nuovo la perpetua, «e senza perdere tempo.»
Il sacerdote si girò a guardarla, le braccia molli, in segno di stanchezza, lungo i fianchi.
«Rebecca, se non vi spiace, dovrei riflettere su una cosa di fondamentale importanza» pregò.
Ma la perpetua, quando imboccava una strada, la percorreva sino in fondo.
«E quella povera pianta?» ribatté. «Masacràda che la par la cros del Signòr! Sa l’ha fà de màa?»
«Certo, certo» cercò di calmarla don Pastore, «ma…»
«Non si è salvato un rametto che sia uno dalle mani di quell’assassino. Se ghe dì adès, cosa darete alle nostre donne la vigilia di Natale, dopo la prima messa? Me piasarès propi savèl!»
Nemmeno il prevosto aveva una pazienza infinita, prerogativa invece dell’Unico. Non resistendo alla tentazione, lasciò che la lingua parlasse come se non fosse la sua.
«Perché non doniamo a ciascuna uno dei vostri magnifici centrini fatti all’uncinetto?» buttò lì, pentendosi all’istante, mentre il viso della perpetua prendeva fuoco.
Il sacerdote comprese che a quel punto avrebbe dovuto immediatamente chiedere scusa, ma Rebecca non gliene diede il tempo: umiliata e offesa volò in cucina dove chiuse la porta con rumore, segno che per due o tre giorni non avrebbe proferito parola.
Don Pastore guardò il soffitto come se fosse l’alto dei cieli, chiedendo venia per ciò che gli era scappato. Poi, visto che era rimasto solo e con la garanzia di non venire disturbato, si chiuse nello studio per riflettere con calma e stabilire tempi e modi dell’azione.
L’unica cosa da fare per avvicinare la “vedova”, poiché con il nome col quale l’avevano battezzata non gli riusciva proprio di chiamarla, e stabilire un contatto, era approfittare del giro delle benedizioni natalizie, momento in cui non avrebbe sollevato sospetti o chiacchiere di sorta, schermandosi dietro la necessità di conoscere le due nuove parrocchiane.