45
Fu una tragedia sin dalle prime mosse.
Giovenca infatti era salita in una carrozza di seconda classe e Rebecca, immemore di avere in tasca un biglietto di terza, l’aveva seguita senza destare sospetti, sedendosi all’estremo opposto del vagone in cui la Ficcadenti s’era accomodata.
Tutto bene fino al passaggio del controleur, più o meno all’altezza di Mandello del Lario quando questi, dimostrando molto buon senso, aveva fatto notare alla perpetua che aveva sbagliato classe. Se voleva restare lì, aveva chiarito, avrebbe dovuto pagare la differenza e lui, per quella volta, le avrebbe abbuonato la multa prevista. Sennò doveva alzarsi e andare verso la coda del convoglio dov’erano le carrozze di terza.
Di spendere altri soldi che nessuno le avrebbe rimborsato, alla perpetua non era parso il caso per cui, ringraziato il controleur, s’era avviata tranquilla verso il fondo del treno: fino a Monza infatti non poteva succedere niente di speciale. Poco prima di Lecco il treno aveva fatto una fermata di una decina di minuti, cosa che aveva dato modo alla perpetua di osservare come sopra alla città splendesse un perfetto sole invernale e di considerare quanto fosse inutile dare ascolto alle chiacchiere della gente che parlava unicamente perché aveva una lingua in bocca. Ne era stata, tutto sommato, soddisfatta, poiché pioggia e ombrello avrebbero intralciato i suoi movimenti e, traendo buoni auspici dal sole, dal cielo azzurro e anche dalla gentilezza del controleur aveva cominciato soltanto allora a sentirsi lieve d’animo, come se fosse un’esperta viaggiatrice. Alla ripartenza del treno ne aveva assunto anche la posa: non più rigida com’era stata sino ad allora e con le mani posate in grembo, ma appoggiata al duro schienale di legno e il viso al finestrino guardando tutto e niente.
La Ficcadenti era entrata in quel panorama sconosciuto quando il treno, effettuata la fermata a Lecco, aveva ripreso la marcia.
Rebecca l’aveva guardata fino a che aveva potuto: era ferma, in attesa, su un altro marciapiede della stazione. Poi, pensando a uno scambio di persona, era corsa verso il vagone di seconda verificando che colei che, a sua insaputa, era scesa alla stazione di Lecco era proprio Giovenca Ficcadenti.
Un groppo di magone secco le era salito in gola, impedendole di rispondere con prontezza al controleur che, trovandola ancora lì, le aveva chiesto: «Forse non mi sono spiegato bene?».
Per tutta risposta, Rebecca, sentendosi le gambe venir meno, si era seduta un momento.
«E no!» aveva detto il controleur.
«Momento, prego» aveva raschiato la perpetua.
Le desse l’agio di riprendere un po’ il controllo.
«Quella signora lì» aveva chiesto poi con il primo fiato di ritorno e indicando il posto dove la Ficcadenti s’era seduta, «non doveva scendere a Monza?»
Il controleur le aveva restituito uno sguardo stranito.
In primis, benché fosse fine anno e sul treno ci fossero pochi viaggiatori, lui non poteva mica sapere dove salisse quello o dove scendesse l’altro. E poi ciascuno era libero di andare e venire dove più gli piaceva.
«Mica devono chiedere il permesso a me, cara signora» aveva concluso il controleur, nuovamente invitandola a raggiungere una delle carrozze di terza classe.
Rebecca aveva obbedito ma come in bambola e seguita passo passo dal ferroviere che, una volta a destinazione, le aveva raccomandato di stare buona e tranquilla e ricordarsi che lei, e non altri, doveva scendere a Monza.
E, non fidandosi troppo, a ogni stazione l’aveva controllata affinché scendesse appunto a Monza e non altrove.
Pioveva, a Monza.
Vatti a fidare!
Per fortuna l’ombrello l’aveva.
Era scesa dal treno incespicando quasi nei gradini e poi, ascoltando le indicazioni del controleur, era uscita a passo di marcia dalla stazione.
Una volta fuori però s’era sentita peggio di come sarebbe stata se la morte improvvisa, invocata in caso di tradimento del segreto, si fosse avverata.
Sola, abbandonata a se stessa, incapace di decidere sul da fare, era rimasta impalata un quarto d’ora abbondante a guardare niente, mentre i piedi le si andavano infradiciando e la pioggia aveva cominciato a vincere l’esile trama del suo ombrello nuovo novento.
Poi aveva deciso di muoversi, tanto per fare qualcosa.
S’era avviata.
Ma, in che direzione?
Quale delle strade che le si aprivano davanti avrebbe dovuto imboccare?
E per andare dove?
Due, tre passi ed era tornata indietro, attirando l’attenzione di uno dei capistazione di servizio. L’uomo aveva escluso che potesse trattarsi di una mondana per via dell’età e dell’abbigliamento. L’aveva tenuta d’occhio per un certo tempo e, notando il comportamento isterico della Rebecca che continuava a guardare di qua e di là come se si aspettasse di veder comparire qualcuno e a tratti dava invece l’impressione di aver deciso quale strada imboccare per poi ritornare sui propri passi, s’era andato convincendo che potesse invece essere un’alienata fuggita dal manicomio di Mombello. In tal caso, aveva ragionato il capostazione, non toccava a lui intervenire. Per quello c’erano i Regi Carabinieri e aveva avvisato i due che pattugliavano stabilmente la stazione. Al comparire di quelli, la perpetua aveva avuto un breve momento di resipiscenza. Li aveva accolti con un mezzo sorriso che era subitamente tramontato quando uno dei due le aveva detto: «Venite con noi» e l’avevano portata in un ufficio per gli opportuni riscontri effettuati i quali tal brigadiere Rocchineiu aveva fatto sapere al capostazione che da Mombello non era segnalata alcuna fuga di ricoverati. Il capostazione aveva controbattuto dicendo che la donna poteva essere fuggita da altro nosocomio oppure avere la necessità di esservi ricoverata, visto che sembrava disorientata e che il suo atteggiamento aveva attirato sguardi e commenti di viaggiatori e passanti. Il Rocchineiu si era consultato telefonicamente con il suo superiore maresciallo Marcianise ottenendo la promessa di un intervento quanto prima, non appena avesse avuto sottomano un paio di uomini liberi da altri servizi: visto che la donna non dava in smanie e non era motivo di scandalo riteneva di poter agire con una certa elasticità. In ogni caso, fossero intervenuti fatti nuovi, che lo avvisasse immediatamente.
Rebecca aveva assistito a tutto senza dire una parola. Aveva approfittato di quel ricovero per asciugarsi un po’ e recuperare la lucidità che la disavventura ferroviaria le aveva tolto.
Così, quando il Rocchineiu, dopo la consultazione con il superiore, le aveva ingiunto: «Voi non muovetevi da qui», lei aveva risposto: «Sono la perpetua del prevosto di Bellano».
Il Rocchineiu aveva ribattuto: «E io sono il Papa».
Tanto era bastato per far ripiombare Rebecca nella certezza di aver imboccato un viaggio senza ritorno.
Dopo circa una mezz’ora, accompagnata da due carabinieri, la perpetua entrava nella caserma comandata dal maresciallo Marcianise per ulteriori accertamenti: allora aveva cominciato a singhiozzare. Vedendola in quello stato, il maresciallo Marcianise aveva innanzitutto ordinato che le venisse data una coperta di ordinanza per potersi riscaldare e poi che fosse condotta in una sorta di sala d’attesa dove avrebbe avuto il tempo sufficiente per calmarsi.
«Così com’è adesso non ci caviamo niente» aveva affermato, disperando di poterlo fare anche più tardi.
Nella stanzaccia, satura di corporali odori, Rebecca aveva vissuto la parte peggiore di quell’incubo che sarebbe durato sino a sera.
Insieme con lei la abitavano quattro reduci di baldorie che avevano voluto anticipare quelle di fine anno, ancora ubriachi tranne uno che sedeva ciondolando la testa e con l’evidenza di una chiazza di urina sul pantalone; due giovani in camicia nera, del tipo “prototipo dell’ardito” dalle cui bocche carnose e pronte al bacio uscivano bestemmie a nastro e minacce tra le più varie all’indirizzo del governo italiano e di quello austriaco senza distinzione, con tanto di rutto finale dopo ogni uscita; una donna, forse zingara, con figlioletto che tentava di succhiare latte da una tetta talmente vuota da sembrare traslucida; un giovane ganassa, forse un ladro, che di tanto in tanto si alzava per fare due passi e gridare alla porta chiusa che al gabbio ci stava meglio che in albergo; e infine un individuo pesto e piagnucolante le cui movenze nel sistemarsi il ciuffo lo denunciavano per uno dell’altra sponda.
A completare l’opera, a variabili intervalli un topo sbucava da un buco dello zoccolino scrostato e con indifferenza girava per la sala.
Uno dopo l’altro ciascun esponente di quella feccia umana era stato convocato e non aveva più fatto ritorno. Verso le quattro pomeridiane era venuto il turno della perpetua Rebecca.
«Allora vediamo di capirci bene» aveva esordito il maresciallo Marcianise. «Innanzitutto documenti.»
Documenti nisba, non ci aveva neanche pensato, non le era venuto in mente, non sapeva nemmeno cosa fossero: a Bellano tutti sapevano chi fosse, nessuno mai le aveva chiesto di identificarsi esibendo un pezzo di carta o altro.
«Male» aveva detto il maresciallo.
Alla perpetua era tornato il singhiozzo.
«E cosa ci fate a Monza?» era andato avanti il carabiniere.
Ahi!
Il segreto era segreto. La morte secca e improvvisa era lì che l’aspettava se solo si fosse lasciata sfuggire mezza parola. Nonostante si sentisse ormai condannata a un destino scuro e ignoto, una vocetta interiore aveva suggerito alla perpetua che qualunque cosa sarebbe stata meglio di una morte all’istante.
«Niente» aveva risposto cavalcando un paio di singhiozzi.
Al maresciallo stavano cominciando a girare i coglioni.
«Vi dobbiamo torturare per avere qualche risposta?» aveva buttato lì tanto per dire qualcosa.
La perpetua aveva sgranato gli occhi.
«È più tosta di quei due tuonati di prima» aveva continuato il maresciallo rivolgendosi al carabiniere che assisteva all’interrogatorio.
«E se fosse vero?» aveva osservato questi.
«Vero cosa?» aveva chiesto il maresciallo.
«Che sia la perpetua di quel paese che ha detto.»
«Ma ti pare che una perpetua se ne vada in giro vestita come un pagliaccio?»
Il carabiniere aveva dato un’alzata di spalle.
Il maresciallo aveva riflettuto.
«Com’è che si chiama ’sto paese?»
«Bellano» aveva pigolato Rebecca guardando fisso il ritratto del Re alle spalle del maresciallo e pensando a una grazia.
Un franco sorriso era fiorito sul viso del Marcianise.
«Ma esiste davvero?» chiese: era a Monza da non più di due mesi, mica poteva conoscere a memoria tutta la Lombardia.
A quell’uscita che metteva in dubbio il luogo in cui aveva trascorso l’intera vita, la perpetua era di nuovo scoppiata in lacrime.
«Mi pare di averlo sentito nominare una volta o due» aveva risposto il carabiniere.
«Controlla comunque» aveva ordinato il maresciallo, «sennò questa ci inonda l’ufficio.»
Esisteva davvero.
Aveva pure una caserma, la comandava tal maresciallo Citrici.
«Mai sentito» aveva osservato il Marcianise, «comunque chiama e informati.»
Ma mica stava in caserma il Citrici.
Aveva infatti passato gran parte delle ore precedenti sulle tracce del latitante Gerlando, individuato grazie alla soffiata dell’ombriachese Pestaquacci che, lungi dal ritenersi un delatore, l’aveva denunciato quale ladro. Dopo averlo ospitato per la notte nella stalla dove teneva una sola vacca da latte, verso le quattro del mattino, quando vi si recava per la mungitura, era rimasto sorpreso dal fatto di non essere riuscito a spremere che poche gocce di liquido dalle mammelle della vacca. Non gli ci era voluto più di tanto per far confessare al Gerlando che, per smorzare i crampi della fame, aveva più volte attinto alla generosità del bovino, lasciando però all’asciutto la famiglia del Pestaquacci che di quel latte aveva bisogno quasi come dell’aria. A nulla erano valse le proteste del Gerlando. Il Pestaquacci era filato a Bellano per denunciarlo ai carabinieri mentre l’altro s’era nuovamente dato alla macchia inseguito non solo dai carabinieri ma anche dalla voce, diffusa dallo stesso Pestaquacci, di non ospitarlo in quanto infido e ladro. Alla fine era caduto nelle mani del Citrici che, messolo nella camera di sicurezza in attesa di consegnarlo alle autorità militari, s’era preso qualche ora di riposo per rimettersi in forze in vista di un’altra lunga notte di servizio attivo, quella dell’ultimo dell’anno per la quale erano annunciati due grandi appuntamenti, un veglione presso il ristorante Cavallino Bianco e l’altro presso il Circolo dei Lavoratori.
Solo verso le cinque del pomeriggio il Citrici s’era ripresentato in caserma e aveva risposto ai dubbi del collega.
C’erano voluti non più di dieci minuti per chiarire la posizione della perpetua.
Quindi, per agevolarne il ritorno a casa ed evitare che andasse a incasinare la vita dei carabinieri di Sondrio o Tirano, i due graduati avevano preso precisi accordi: il Marcianise si era impegnato a far accompagnare in stazione la perpetua da un carabiniere raccomandandola caldamente a uno dei ferrovieri in servizio sul treno affinché si accertasse che quella scendesse a Bellano e non altrove, mentre il Citrici si impegnava ad andare di persona per prenderla in consegna e riportarla in canonica esortando il prevosto a non lasciarla mai più affrontare un viaggio da sola.
Tutto era filato liscio, nondimeno la Rebecca aveva assai patito le disavventure della giornata al punto che il Citrici aveva fatto fatica a riconoscerla: debole, affranta, pallida, umida che la si poteva strizzare, ancora scossa da qualche singhiozzo, il Citrici aveva evitato di farle domande e l’aveva portata quasi di peso in canonica dove il prevosto, avvisato preventivamente dell’accaduto, la attendeva insieme con la levatrice Zambretti, l’unica persona di sicura omertà alla quale aveva pensato di potersi affidare per preparare un brodo ristoratore.
Al momento della consegna, la Rebecca sembrava più un pupazzo che una cristiana. Il prevosto era rimasto di sale quando se l’era trovata sotto gli occhi.
Pratica: «A letto subito!» aveva intimato la Zambretti.
Poi, come se avesse sottomano una partoriente, aveva ordinato acqua calda, panni asciutti e di essere lasciata sola con la prodiga perpetua.