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Le due sorellastre si erano lasciate un po’ alla brutta. Di conseguenza Giovenca temeva un poco quel nuovo faccia a faccia con Zemia ma, non appena le era stata di fronte, aveva pensato a santa Rita da Cascia: pur non avendo voluto, o potuto, intervenire direttamente nella soluzione del suo problema, le aveva indicato quella strada alternativa che, senza ombra di dubbio, assumeva ai suoi occhi e a quelli di eventuali spettatori il significato di un vero e proprio atto di carità cristiana, mascherandone l’opportunismo.
Zemia infatti stava in una condizione di clamoroso abbandono.
Quando Giovenca era entrata in casa, la sorella indossava una marsina nera unta e bisunta e stava cercando di liberare l’aria della cucina di casa dal fumo acre di una stufa il cui cannone era evidentemente intasato. Il tavolo era un colorato tripudio di piatti sporchi e quando le si era avvicinata aveva percepito un odore di muscimusci, indice di latitante igiene.
La prima ad aprire la bocca era stata Zemia, e l’aveva aggredita.
«Sei forse venuta a darmi il tuo aiutino?» aveva chiesto sprezzante riferendosi all’ultimo scambio di battute che c’era stato tra di loro.
Giovenca, gli occhi già irritati dal fumo, li aveva chiusi del tutto.
«Ma cosa dici?» aveva pigolato mitemente.
Innanzitutto era lì per scusarsi delle parole che le erano scappate di bocca.
«Sapessi quanto ci ho ripensato e quanto me ne sono pentita.»
Parole che le erano uscite dalle labbra senza che lei lo volesse veramente, dettate dal momento di confusione in cui si trovava stante la serie di disgrazie che si erano abbattute sul suo capo.
In secondo luogo, se lei era tanto buona da perdonarla, aveva da farle una proposta sincera e disinteressata. Ne aveva discusso anche con la sua consulente Rigorina ottenendone l’approvazione.
«Sentiamo» era stata la risposta asciutta di Zemia.
«Ecco» aveva continuato Giovenca, «avrei pensato che con il mio aiuto potresti… cioè, potremmo aprire una merceria.»
Una merceria, certo.
Anche la Rigorina s’era detta dell’idea: un’attività all’interno della quale Zemia non avrebbe avuto difficoltà a muoversi e che le avrebbe impegnato le giornate impedendole di chiudersi nella solitudine.
Giovenca aveva aspettato una qualunque reazione da parte della sorellastra, ma non era arrivata.
Due sole parole piuttosto.
«Va’ avanti.»
Giovenca aveva tossicchiato, un poco in imbarazzo. S’era aspettata ben altra reazione. In più il fumo sembrava non aver intenzione di abbandonare la cucina.
«Abbiamo tutto il tempo che ci serve» era andata avanti. «Poi, una volta avviata, saresti tu l’unica proprietaria. E così avrai un futuro garantito!»
«E dove?» aveva allora chiesto Zemia.
«Dove, cosa?» aveva ribattuto Giovenca.
«Dove l’apriresti questa merceria?»
Ma era logico.
Almeno, secondo il pensiero di Giovenca. Lì! Ad Albate!
Così sarebbero state sempre vicine, lei su alla vil…
Zemia le aveva sforbiciato la parola.
«Qui?»
In un posto dove la gente, quando rompeva le stringhe, si allacciava gli scarponi con il fil di ferro piuttosto che comperarne di nuove? Dove perlopiù le massaie non sapevano nemmeno cosa fosse una tovaglia e lasciavano che tutti mangiassero tenendo il piatto sulle ginocchia? Dove bisognava aspettare che morisse qualcuno per vendere un paio di bottoni da mettere sul vestito buono del defunto?
«Se devo morir di fame» aveva sentenziato Zemia, «preferisco farlo in fretta. E grazie per l’aiuto!»
Giocoforza Giovenca aveva dovuto ammettere tra sé che sua sorella non aveva tutti i torti. Non avesse avuto un secondo fine, costruirsi anche lei un bell’alibi di ferro, l’avrebbe mandata a quel paese.
Invece…
«Ma allora…» aveva mormorato.
«Allora l’idea non mi sembra male, il posto invece sì» aveva concluso Zemia.
Giovenca aveva tirato un sospiro di sollievo e nuovo fumo in gola: uno spiraglio c’era.
«Dimmelo tu dove vedresti bene una merceria» aveva chiesto.
Uno, due posti Zemia già li aveva in testa. Sino ad allora ci aveva fantasticato attorno leggendo il “Bollettino degli Ufficiali Levatori”, cui il Ficcadenti padre era sempre stato abbonato: edito dalla Camera di Commercio e Arti di Como, dava conto degli insolventi e dei fallimenti di varie attività nell’intiera provincia.
La fantasia, adesso, poteva diventare realtà.
Tremando un po’, senza darlo a vedere, poiché se Giovenca si fosse opposta addio sogni di gloria, aveva sparato la proposta.
«È un po’ lontano da qui» aveva detto preparando il terreno.
«Be’» accomodante la Giovenca, «non sarà mica in capo al mondo» evitando di dire che, se anche fosse stato lì, un accordo l’avrebbero trovato.
Zemia era rimasta indecisa tra due nomi. Per quel che ne sapeva, uno valeva l’altro. Aveva scelto il più breve, non certo in capo al mondo ma quasi in capo al lago.
«Bellano.»
Giovenca aveva risposto con uno scuotere di testa.
Dov’era?
«Sul lago. Al centro.»
«Bene…»
«Si tratterebbe di rilevare i locali di uno che riparava un po’ di tutto.»
«Ottimo» cinguettò Giovenca tanto per dire qualcosa.
«Certo» confermò Zemia, «ma poi?»
«Poi…!?» aveva esalato Giovenca.
S’era appena rilassata, di concerto con il fumo che era andato diradando, aveva addirittura già cominciato a fare tra sé timidi calcoli su quanto tempo le sarebbe servito per completare l’opera e adesso… Con quel “poi”, secco come chi l’aveva pronunciato, sua sorella l’aveva riportata al palo.
Poi, cosa?
Che tranello c’era dietro quella parola, che inganno stava tramando Zemia?
«Poi» s’era allora spiegata la sorellastra, «una volta aperta la merceria, faresti conto di lasciarmi sola?»
Ma certo!, era stata la risposta che Giovenca aveva trattenuto sulla punta della lingua. Cosa voleva che facesse? Che lasciasse perdere il Novenio, la villa, tutta la sua più che legittima eredità per passare la vita a misurare nastri, contare bottoni e sgranare rosari alla sera godendo della sua fantasmatica compagnia?
Aveva aperto la bocca per parlare ma così era rimasta, incapace di elaborare una risposta.
Aveva parlato Zemia, invece.
«Ho capito» aveva detto.
Poi con voce nasale e senza muovere le labbra aveva concluso la discussione: «Accetto. Però, allora, mi ci vuole un marito».