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Mentre il prevosto questionava in casa Ficcadenti con il tono del mezzogiorno e la Zemia difendeva a spada tratta il sonno della sorellastra, la Giovenca era rimasta dietro la porta della camera da letto. Tutt’altro che straziata dal dolore annunciato da Zemia e men che meno rintronata dalla canfora che non s’era nemmeno sognata di assumere, aveva ascoltato tutto ciò che i due s’erano detti, fino all’uscita di scena di don Pastore.
Prima di presentarsi in sala, dalla sua camera ne spiò il sottanone agitato dal vento che si allontanava in direzione del buio di via Manzoni, riflettendo sul significato che poteva avere il silenzio che era conseguito allo scambio di battute con Zemia: s’era aspettata ben altra reazione da parte del sacerdote.
Invece, silenzio.
Il che poteva dire che il prevosto aveva finalmente deciso di non ficcare più il naso nei loro affari di famiglia oppure che, vista l’inutilità dei suoi interventi, si fosse risolto a battere vie diverse, magari affidando ad altri il compito di risolvere il mistero. Quali altri, Giovenca non riusciva a immaginare.
Ma sapendo cosa c’era in ballo in quel di villa Coloni, avvertiva una certa irrequietezza per calmare la quale le sarebbe servito molto di più che un po’ di canfora.
Tuttavia non era quello il momento per tremare o lasciarsi trasportare da fantasie. Bisognava anzi rinforzare le difese, rimanere saldi nelle posizioni, impedire che qualcuno di loro, Zemia o il Geremia, potesse avere ripensamenti.
Uscì in cucina.
La visione della sorellastra non le fu certo di conforto.
Zemia era seduta, le mani intrecciate appoggiate al tavolo, la testa china. Nessuna sorpresa se stesse pure spremendo qualche lacrima silenziosa.
«Zemia!» mormorò.
La sorella la guardò senza parlare.
«Cosa c’è?» chiese Giovenca.
«Niente» le rispose Zemia.
Per nulla convincente.
Giovenca le si avvicinò, incapace di trattenere un mezzo brivido quando le posò le mani sulle spalle ossute.
«Non adesso, mia cara» sospirò Giovenca.
Non era quello il momento per farsi prendere da ripensamenti o timori di fronte a eventuali minacce di dannazione o da altre, più prosaiche, paure di vendette terrene.
«A cose fatte, vedrai, questi momenti ti sembreranno solo dei brutti ricordi sui quali potrai anche permetterti di ridere.»
«Ho paura» disse finalmente Zemia.
«Paura di cosa?» chiese Giovenca.
Zemia si schiarì la voce con un colpetto di tosse.
Be’, spiegò, temeva che, visto che il Geremia era stato così fesso da abboccare all’esca, avrebbe ugualmente potuto cedere di fronte ai tuoni e fulmini di don Pastore e rimangiarsi ciò che aveva promesso la sera in cui era stato a cena da loro.
Giovenca tirò un sospiro di sollievo. Aveva temuto che quegli stessi tuoni e fulmini avessero potuto convincere Zemia a dimettersi dal progetto.
Sorrise, vincitrice.
Era disposta, affermò, a scommettere la vista di entrambi gli occhi che il giovanotto nemmeno in sogno avrebbe immaginato di fare una cosa del genere.
Che Zemia tenesse ben presenti i termini dell’accordo: solo così il Geremia poteva illudersi di poterla avere.
E lei sperare di trovar marito.