87
La teoria era questa.
Poco per volta, ogni due, tre giorni.
Poco, ma sempre un poco di più.
«Ma così…?» aveva obiettato il Novenio.
L’Esebele non aveva che cominciato a tracciare il suo disegno criminale, quando s’era visto costretto a interromperlo.
«Cosa c’è?» aveva chiesto.
Il figlio, memore di qualcosa che aveva leggiucchiato durante gli anni del seminario, si era spiegato.
«Non è che così facendo quella si abituerà al veleno e potrà berne anche a litri senza avere conseguenze?»
L’Esebele aveva sorriso compiaciuto.
«Finalmente una domanda intelligente» aveva commentato.
Alla quale aveva risposto: «No».
Per eliminare la Primofiore bisognava usare quella tattica onde avvalorare l’ipotesi di una morte naturale ed evitare che su di essa nascessero sospetti; intossicarla lentamente sino a raggiungere il punto di saturazione che coincideva con un… un colpo secco. Il medico che l’avrebbe visitata ormai cadavere non avrebbe così avuto sospetti di sorta né, di conseguenza, sarebbero nate voci che avrebbero potuto solleticare la curiosità dei Regi Carabinieri o di qualche invidioso.
Il veleno andava spacciato per tisana rilassante.
«Non solo alla matta» aveva sottolineato l’Esebele.
«Ah no?» aveva chiesto il Novenio.
«No, gesucristo, no!» aveva sacramentato l’Esebele.
Nessuno avrebbe dovuto sapere niente, men che meno la persona che lo avrebbe somministrato alla deficiente, cioè…
«Cioè?»
«E me lo chiedi anche?» aveva ribattuto strozzato dalla rabbia il genitore.
Chi, se non lei?
La Giovenca, no!
«Lei?» s’era stupito il Novenio.
«Proprio» aveva confermato l’Esebele.
Nel caso il piano fosse andato storto, ed era l’ultima delle cose che si augurava potesse accadere, ci sarebbe stato un colpevole e non doveva essere lui.
«Ma…» aveva interloquito il Novenio.
«Lo so» l’aveva interrotto il genitore.
La ragazza avrebbe potuto accusarlo di averle fornito l’arma del delitto.
E be’?
Lui poteva sempre dichiarare che le aveva detto essere veleno per i topi e che mai aveva sospettato che lei invece l’avrebbe usato per intossicare la scema e togliersela dai piedi. In quel caso sarebbe stata la sua parola contro quella della Giovenca, senza considerare che tutta la faccenda dell’eredità pesava a suo sfavore. Ma considerate bene le cose era assai difficile che qualcosa mandasse all’aria il piano. Molto probabile invece che tutto filasse liscio e loro due potessero godersi a vicenda e, naturalmente, far godere dell’abbondanza anche qualche altro.
Quindi.
«Ci siamo capiti?» aveva chiesto il genitore.
Novenio si stava mordendo il labbro inferiore, gli occhi sgranati.
Poi rispose sì, aveva compreso.
«Finalmente» aveva sospirato suo padre.
«E quanto tempo ci vorrà?» aveva domandato il figlio.
L’Esebele aveva allargato le braccia, calma adesso.
«Variabile» aveva risposto.
Ogni organismo faceva da sé in quei casi. V’era chi resisteva di più e chi meno. Nella fattispecie bisognava considerare la debolezza intrinseca, causata dalla malattia che da lungo tempo affliggeva la donna, in virtù della quale si era portati a credere che le possibilità di resistenza della Primofiore fossero ridotte al lumicino. Ragione per la quale, aveva sentenziato l’Esebele, bisognava andarci cauti.
«Poco quindi, pochissimo. Ogni due o tre giorni. La morte deve sembrare la più naturale possibile.»
Ma sempre, comunque, un po’ di più.
Esagerando c’era il rischio di un risultato troppo rapido.
Il Novenio non aveva più avuto domanda da porre, se non una che galleggiava nella sua mente da un po’.
S’era deciso a tradurla in parole.
«Voi l’avete mai fatto prima d’ora?»
Ma l’Esebele aveva schivato la risposta.
«Tieni per te il segreto delle tue azioni e sarai tu l’unico giudice di te stesso.»
E con questa perla di saggezza, imparata in gioventù e che tirava fuori nei momenti critici, aveva ritenuto conclusa la lezione.