Capitolo 9
Kim aveva soltanto bisogno di conoscere l’ora approssimativa della morte e di dare un ultimo sguardo al tatuaggio prima di andarsene, ma in quel momento spuntò Dawson, con un aspetto più consono a quanto si sarebbe aspettata da un sergente in servizio.
Il completo era pulito, la camicia priva di macchie, la cravatta domata e il viso rasato.
Le rivolse uno sguardo colmo d’aspettativa. Lei non disse né fece niente. Non intendeva certo congratularsi con lui perché si era presentato al lavoro in ordine.
A colpirla, piuttosto, fu il fatto che la collega più giovane avesse deciso di accompagnarlo e dare un’altra occhiata alla scena.
«Hai scattato un primo piano del tatuaggio?», domandò Kim al fotografo.
Lui annuì, ma lei fece comunque una foto con il telefono. Aveva qualcosa di familiare.
«Be’, potremmo dire che gli hanno servito il suo coso su un…».
«Ora del decesso, Keats?», chiese Kim, interrompendo il commento sarcastico di Dawson. Non aveva niente contro l’umorismo macabro: spesso aiutava chi faceva quel lavoro a restare sano di mente. Però c’era una regola aurea da rispettare: doveva essere sagace e non semplicemente stupido.
«Dalla temperatura del fegato posso concludere che si è verificata alle ventitré, quarantacinque minuti e venti secondi», rispose lui con un sorrisetto.
Kim non lo ricambiò. Si limitò ad attendere.
Dawson continuò a camminare intorno al corpo con le mani in tasca, ripercorrendo i suoi stessi passi.
Quando raggiunse la zona dello smembramento, si accovacciò e osservò da vicino.
«Collocherei la morte tra le ventitré e l’una di notte. Se vuoi delle indicazioni più precise ti consiglio di chiedere all’assassino, quando lo prendi».
«Ma certo», disse Kim; in quel momento tornò Bryant, dopo essere andato a parlare con l’uomo che aveva scoperto il cadavere.
«Jerry Walker, capo», esclamò. «Ventinove anni. Viene a correre da queste parti ogni mattina, con qualsiasi tempo. È ancora sotto shock, ma ho preso i suoi dati per ricontattarlo».
«Niente di insolito?», chiese.
Bryant scosse il capo. «Non credo. La sua storia mi è sembrata plausibile. Il tragitto da casa sua è plausibile, ma…».
Certo, avrebbero fatto qualche ricerca su di lui.
Dawson aveva completato il giro e si era fermato alle loro spalle.
Keats alzò lo sguardo sui quattro che si ritrovò davanti.
«Ehi, quanti detective ci vogliono per cambiare una lampadina?».
Come aveva già ricordato a sé stessa, una battuta poteva anche starci, ma doveva essere intelligente.
«A che ora ci sarà l’autopsia?», domandò Kim.
«Fammi capire, detective», fece lui, fissandola negli occhi. «Sei un esempio tipico del genere di persone con cui mi troverò a lavorare qui alla polizia delle West Midlands?»
«Niente affatto. Scoprirai che alcune sono davvero penose, quindi approfittane finché ci sono io…».
Con sua grande sorpresa, il medico gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere.
E la sua non era una battuta.
Keats guardò l’orologio. «Ho un paio di cose da finire, quindi facciamo alle due in punto».
Lei lo ringraziò con un cenno del capo e si avviò verso l’auto. Una volta arrivata, si fermò e si rivolse alla squadra.
«Bene, abbiamo una vittima, un uomo inchiodato a terra, nudo e privo di effetti personali. Qual è la prima cosa che dobbiamo fare?».
Nessuno parlò.
«Dai, ragazzi, niente punizioni o castighi a chi sbaglia».
Ripeté la domanda, e Dawson fu il primo a farsi avanti.
«Dobbiamo dargli un nome».
«Ecco la risposta che volevo».