Capitolo 28
«Che cazzo guardi?», sbottò Dawson quando Stacey gli lanciò un’occhiata da sopra lo schermo del computer.
«Uno stronzo», rispose d’istinto lei.
Abbassò lo sguardo, pentendosi di ciò che aveva detto, ma l’insulto le era scappato di bocca prima che riuscisse a trattenersi.
«Non era una bugia», disse lui per giustificarsi. «Il vecchio ha provato due volte a fare l’esame, e due volte non l’ha passato. Che sfigato».
Stacey notò che il collega aveva opportunamente dimenticato le cifre citate dal capo. E poi il sergente Bryant non era affatto sfigato, secondo lei. Per il poco che lo conosceva, le sembrava un tipo equilibrato, gentile e cordiale.
Detto ciò, insultare i colleghi non l’avrebbe certamente aiutata ad ambientarsi.
«Senti, non volevo…».
«Lascia perdere. Tanto non mi importa della tua opinione», ribatté lui, dopodiché afferrò la giacca e uscì senza dire una parola.
Stacey scosse il capo. Quel tizio aveva problemi seri.
Tornò a concentrarsi sul lavoro. Il capo le aveva detto di iniziare procurandosi i tabulati telefonici e i video delle telecamere.
Il gestore telefonico aveva risposto alla sua e-mail confermandole, con un messaggio molto conciso, di avere preso in carico la sua richiesta; sospettava che sollecitarlo ogni cinque minuti non l’avrebbe aiutata a ottenere i dati più in fretta.
Prese le foto della scena del crimine e afferrò un taccuino.
Quando era una agente semplice, spesso l’avevano incoraggiata a considerare ogni caso nel suo insieme, a esplorare tutte gli scenari possibili, a sviscerare ogni aspetto. Ed era proprio la necessità di andare a fondo che l’aveva spinta a diventare agente investigativo: cercare indizi, inquadrare il caso da tutte le angolazioni, pensare fuori dagli schemi per portare a galla la verità.
Davanti a quelle immagini ormai non provava più l’orrore del giorno precedente. Non vedeva più la vittima come un uomo, un essere umano che era stato brutalmente assassinato. Non avvertiva più il dolore, la paura di lui di fronte alla lama che stava per tagliargli la gola.
Adesso, a colpirla era soprattutto la maestria con cui era stato ucciso. L’abilità, la furbizia, l’organizzazione.
L’assassino aveva condotto la vittima in una zona isolata delle Clent Hills, di notte, dove era certo di poter agire indisturbato.
Aveva portato con sé un oggetto pesante per colpirlo alla testa e fargli perdere conoscenza. Si era portato gli attrezzi per inchiodarlo a terra. Gli aveva tagliato la gola e poi, con calma, l’aveva mutilato e gli aveva staccato la testa dal collo.
Stacey si ricordò di un episodio che risaliva ai suoi tredici anni: un gruppetto di ragazze l’aveva sfidata a rubare un sacchetto di caramelle gommose da WHSmith, nel centro di Dudley. Le avevano promesso che, se l’avesse fatto, sarebbe potuta andare al cinema con loro.
Ricordava ancora la sensazione che aveva provato in quell’occasione. Era entrata nel supermercato con il cuore che batteva all’impazzata per la paura. Aveva messo una manciata di caramelle gommose in un sacchetto ed era uscita subito. Dopo aver commesso il reato, non era rimasta a gironzolare tra gli scaffali.
Rifletté sulla pianificazione e sull’esecuzione dell’omicidio. Dopo avere ucciso Luke Fenton, l’assassino non si era fatto prendere dalla fretta di lasciare la scena del crimine.
Si accinse a iniziare la ricerca delle telecamere a circuito chiuso della zona di Clent, ma sperava vivamente che presto arrivasse il fascicolo da Wolverhampton, perché tutto ciò che aveva imparato dai libri di scienze forensi confermava che quello non era il primo delitto del loro assassino.