Capitolo 24

Quando Kim entrò con la Kawasaki nel suo garage e richiuse la porta erano quasi le otto.

Le ultime tredici ore erano durate una settimana, o almeno così le era parso.

Non riusciva a credere che solo quella mattina fosse uscita di casa senza una squadra e senza un caso. Adesso aveva entrambi.

Prima ancora di togliersi la giacca, accese il fornello. Lo faceva ogni mattina: preparava la caffettiera per quando sarebbe rincasata. Era sicura che l’avrebbe bevuta tutta, a prescindere dall’ora.

Non accese il televisore, né la radio. Non aveva mai sentito il bisogno di riempire il silenzio della casa vuota. E poi non aveva intenzione di rimanere a lungo in soggiorno.

Giusto il tempo di bere un caffè al banco di cucina, dopodiché avrebbe fatto una doccia, si sarebbe cambiata e sarebbe andata in garage a divertirsi con quella che un giorno sarebbe diventata una Triumph Thunderbird del 1951 totalmente restaurata e che, per il momento, era un ammasso di pezzi sparpagliati sul pavimento.

Aveva ereditato quella passione dalla sua quarta famiglia affidataria. Keith ed Erica, una coppia di mezza età che non aveva avuto figli.

Dai dieci ai tredici anni, Kim aveva sperimentato con loro cosa significasse sentirsi parte di una famiglia, essere circondata di affetto. Non avevano tentato di guarirla, dopo i traumi che aveva subìto fino all’età di sei anni. Non avevano tentato di curare la ferita che si portava dentro, causata dalla perdita del fratello gemello. Non avevano tentato di farle rievocare l’esperienza penosa di vivere con una madre schizofrenica e paranoica, il cui unico scopo era uccidere uno dei suoi figli, né il fatto che ci fosse riuscita, quando lui aveva appena sei anni.

Non avevano cercato di cancellare il ricordo della casa famiglia in cui aveva vissuto, né di spazzare via le tre coppie affidatarie che erano venute prima di loro. Le avevano semplicemente voluto bene come se fosse stata figlia loro, fino al giorno in cui erano rimasti vittime di un tamponamento a catena in autostrada, poco dopo il suo tredicesimo compleanno.

Le avevano donato amore, affetto, autostima, protezione e la passione per le motociclette, vecchie o nuove che fossero.

Lavorare alla Triumph aveva il potere di azzerare lo stress della giornata. Quando stringeva in mano un cacciavite, una chiave a cricchetto o inglese, la mente di Kim era concentrata sulle tessere del puzzle che doveva ricomporre.

Tuttavia, quella sera non era sicura di riuscire a staccare la spina. Il suo cervello voleva ripercorrere gli eventi della giornata. Voleva passare in rassegna tutti i dati in suo possesso.

Sin dal primo momento in cui si era affacciata sulla scena di quel delitto tremendo si era chiesta cosa potesse aver fatto quell’uomo per meritare tanto odio; e finora brancolava nel buio.

Certo, la signora del ristorante cinese non era una sua grande fan, ma scroccare la cena ed essere maleducati di solito non erano motivi sufficienti per finire decapitati e mutilati.

Avevano trovato il secondo computer solo all’ultimo, e quello sicuramente avrebbe rivelato qualcosa in più.

Roy aveva preso accordi per mandarlo subito al laboratorio, ma immaginava che fino all’indomani non avrebbero iniziato a lavorarci. Una volta ottenuto il caso di Wolverhampton, avrebbero potuto iniziare a cercare i possibili legami fra le due vittime. Se avesse fatto di testa sua, avrebbe preso la moto e sarebbe andata subito nella vicina città a chiedere il fascicolo relativo al caso, ma comprendeva la necessità di seguire la procedura. Per di più, non era molto popolare al commissariato di Wolverhampton.

I pensieri di Kim corsero alla sua squadra.

Non sapeva perché, ma il sergente Bryant le era piaciuto subito. La sua stazza, il suo atteggiamento, facevano pensare a un carattere fermo e affidabile. La sua calma e i modi cordiali mettevano le persone a loro agio. Una dote che lei avrebbe sfruttato al massimo durante lo svolgimento del caso, in modo da compensare le proprie lacune nella sfera dei rapporti interpersonali.

Stacey Wood era appassionata e sorrideva sempre. Kim si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima che ci desse un taglio. Sperava che accadesse presto, perché quella ragazza era troppo desiderosa di compiacere gli altri, persino davanti a quel fantastico primo caso che le era capitato. Davanti alla scena del crimine le era mancato il respiro, ma poi aveva deciso di tornarci. Kim apprezzava che avesse lavorato quasi tutto il giorno da sola senza un lamento mentre il suo collega svicolava, e la rispettava, ma non aveva intenzione di permettere che si ripetesse. La vera passione di Stacey però era emersa quando si era seduta davanti al computer di Fenton: solo in quei momenti il sorriso falso e compiacente era scomparso dal suo volto.

E poi c’era il sergente Dawson. Da dove iniziare? Nel corso della sua carriera ne aveva incontrati tanti di tipi come lui. Erano ambiziosi, e non sempre per motivazioni nobili. Dawson voleva farsi notare, voleva suscitare delle reazioni. Voleva ribellarsi al suo nuovo capo. L’aveva capito, ma non aveva alcuna intenzione di abboccare.

Per il momento poteva basarsi solo sulle sue considerazioni, sulle cose che aveva osservato vedendoli all’opera durante quel primo giorno passato insieme.

Non era abbastanza.

Accese il portatile per scoprire cosa contenesse.

Per quella sera, la Triumph avrebbe dovuto aspettare.