Capitolo 40
«Cosa ha fatto?», esclamò Kim quando Dawson le riferì quanto era accaduto all’obitorio.
«Gli ha dato un pugno, capo. Un pugno vero! L’ho portata fuori, ma si è divincolata ed è scappata via».
Kim ripensò alle condizioni del cadavere.
Chiuse gli occhi e parlò nel ricevitore. «Dawson, non dirmi che la sua testa…».
«No, capo, era cucita al collo».
Kim pronunciò un muto grazie.
Ma perché la sorella gli aveva dato un pugno?
«Va bene, torna alla stazione di polizia e vedi se riesci a trovare qualcosa su quella donna e la sua bambina. Qualcuno deve pur conoscerle».
Il sergente assentì e chiuse la conversazione.
Il telefono di Kim riprese subito a squillare. Era Keats, e lei sapeva benissimo perché la stava chiamando. Ma come avrebbe potuto immaginare che quella donna si sarebbe messa a picchiare un cadavere?
«Stone», rispose.
«Vittima non identificata», ribatté lui.
«Come, scusa?»
«Il caso su cui mi hai chiesto di fare ricerche, quel tizio che è stato mutilato. Risale a sei anni fa ed è rimasto irrisolto. La vittima non è mai stata identificata».
«L’hanno decapitato?», chiese lei, speranzosa.
«No, altrimenti me ne sarei sicuramente ricordato e te l’avrei detto ieri».
«C’è dell’altro?»
«Una scarpa, detective, ritrovata nel bosco. Non sono mai riusciti a provare che avesse un legame con il caso. E c’è un altro dettaglio che potrebbe interessarti».
«Cioè?»
«La mutilazione era grossolana, un lavoro da principianti, opera di una persona che evidentemente non l’aveva mai fatto prima».
Lei rimase zitta, in attesa che proseguisse.
Silenzio.
«Va bene, grazie Keats. Sei stato molto gentile a controllare».
Peccato che non le fosse stato di nessun aiuto.
Quando infilò il cellulare in tasca, si accorse che il sergente Bryant la stava ancora fissando.
«Gli ha dato un pugno in faccia?».
Kim annuì; anche lei stentava a credere alle parole di Dawson.
«Proprio così, e adesso dobbiamo scoprire perché l’ha fatto».