Capitolo 17

Erano a meno di due chilometri dall’indirizzo di Amblecote che Stacey aveva comunicato loro e stava già facendo buio.

«Hai mai lavorato con il sergente Dawson in passato?», chiese oziosamente Kim.

«No, grazie al cielo», rispose Bryant, poi si voltò a guardarla. «Scusa, non dovrei…».

«Non preoccuparti. Volevo solo sapere cosa ne pensi», spiegò. Avrebbe giudicato il sergente basandosi solo sul suo operato all’interno della squadra, ma era curiosa di scoprire se le loro strade si fossero già incrociate. Poiché Stacey era stata promossa di recente, sicuramente non aveva mai lavorato con lui, e Kim si era già fatta un’idea dell’opinione che la giovane aveva del sergente.

«Scusa, capo, non mi piace parlare male delle persone in stato di morte cerebrale».

Kim trattenne un sorriso alla battuta. «Insomma, non ci hai mai lavorato».

«E non mi ero accorto di quanto fossi fortunato», disse lui, imboccando una traversa e dissipando ogni dubbio sul suo parere.

«È poco più avanti», la avvertì subito dopo Bryant, controllando sullo schermo del navigatore.

La casa faceva parte di una schiera composta da quattro abitazioni strette costruite su un lotto che, a giudicare dalle altre proprietà sulla stessa via, prima doveva aver ospitato un bungalow dalla discreta metratura.

Davanti alla facciata si stendeva una lingua d’asfalto abbastanza larga da contenere un veicolo di medie dimensioni, ma che Kim non avrebbe definito un “vialetto”.

Bryant superò l’auto di pattuglia che li stava aspettando e parcheggiò. Era impossibile non invadere la proprietà confinante scendendo dalla macchina.

«Avete provato ad aprire?», chiese Kim agli agenti che li avevano preceduti.

«Chiusa a chiave, signora», rispose uno di loro.

Kim si guardò intorno e scorse alcune paia di occhi curiosi che li scrutavano dalle finestre, illuminate e decorate con fili di lucine intermittenti.

«Bene, procediamo», ordinò.

L’agente annuì e si avviò verso l’auto di pattuglia.

Se tra i vicini c’era ancora qualcuno che non li stava spiando, probabilmente avrebbe iniziato a breve, pensò Kim, vedendolo ritornare con un grande ariete rosso tra le braccia.

La scientifica non aveva rinvenuto alcun effetto personale sulla scena del delitto, dunque le chiavi di casa erano andate perdute insieme a tutte le altre cose che la vittima aveva con sé; non restava altra scelta che sfondare la porta. L’agente le rivolse un ultimo sguardo prima di mettersi in posizione.

Con un cenno del capo, la detective lo autorizzò a procedere.

«Niente auto, capo?», domandò Bryant.

Strano, convenne lei. Il mezzo non era stato trovato nemmeno nei pressi del luogo della morte.

La porta cedette al primo colpo e andò a sbattere con violenza contro la parete retrostante; l’ariete, con i suoi sedici chili, era in grado di imprimere una forza d’urto pari a quella di un oggetto di tre tonnellate.

Kim varcò la soglia e si ritrovò nel corridoio più angusto che avesse mai visto, reso ancora più stretto da una bicicletta appoggiata a un piccolo termosifone.

Andò avanti e oltrepassò le scale alla sua sinistra. Le era capitato spesso di entrare in case che, viste dall’interno, si rivelavano ben più spaziose di quanto l’aspetto esteriore facesse pensare; in quel caso, però, capì subito che l’apparenza non ingannava.

Il piano terra era composto da due stanze. La cucina, che affacciava sulla strada, e un soggiorno, che dava su un cortile recintato da una staccionata lungo al massimo otto metri.

Decise di iniziare dalla cucina. Alla sua sinistra, un tavolo rotondo circondato da tre semplici sedie di legno. Una rivista automobilistica aperta catturò la sua attenzione. Su una pagina c’era una lista di annunci e due inserzioni erano state cerchiate.

«Forse iniziava a fare un po’ troppo freddo per la bicicletta», commentò Bryant, che aveva notato il giornale e i segni a penna. Fotografò le informazioni di contatto di entrambi gli annunci per controllare se la vittima avesse mai fatto quelle chiamate.

Kim era in piedi al centro della stanza e si guardava intorno. I mobili e gli elettrodomestici erano economici e funzionali. Qualche goccia di tè era caduta sul ripiano durante il tragitto dalla tazza al portamestolo, che era colmo di bustine usate.

Ebbe subito la netta impressione che in quella casa non vivesse una donna. Ma voleva assicurarsene.

«Bryant, chiama Stacey e chiedile se dalle liste elettorali risulta che qualcun altro viva qui».

Lui annuì e sparì nel corridoio.

Kim non era una maniaca della pulizia, ma quelle macchie di tè l’avrebbero mandata fuori di testa.

Notò che ogni superficie, eccetto il bollitore e la caffettiera, era ricoperta da un sottile strato di polvere.

Il pavimento era punteggiato da piccole chiazze di sporcizia ormai secca nello spazio che separava il piano di lavoro dalla sedia più vicina.

«No, capo», esclamò Bryant, rimettendo il telefono in tasca. «Stacey dice che il suo è l’unico nome che risulta dalle liste elettorali da tre anni a questa parte. Per tutto il periodo in cui ci ha vissuto».

Kim lo ringraziò con un cenno del capo e si spostò nel soggiorno. Un’altra stanzetta resa ancor più soffocante da un enorme divano a tre posti e da pesanti tende di velluto che ricadevano ampie sul pavimento. In un angolo c’erano un piccolo televisore e una console. Sul tavolino di vetro, alla destra della poltrona, erano rimasti un piattino e la tazza di una squadra di calcio.

Su un lato del divano era posato un portatile chiuso.

Kim si augurò che il computer li aiutasse a scoprire qualcosa sul loro uomo, a differenza di quella casa.

Udì un rumore di passi alle sue spalle.

«Ciao, Roy», disse all’uomo barbuto.

«Mi ha chiamato l’agente e mi ha detto di venire qui». Si guardò intorno nella stanza vuota. «Mi avete fatto lasciare la scena del crimine a Clent per questo?».

A Kim era già capitato di lavorare con Roy qualche volta. La sua mente indagatrice e analitica lo rendeva un ottimo tecnico della scientifica, e lei con il tempo aveva imparato a ignorare le sue lamentele. Kim era pronta a scommettere che neppure una vincita di un milione di euro alla lotteria l’avrebbe convinto a scucire un sorriso.

«Possiamo imbustare quel computer?», gli chiese, indicando il portatile.

«Tutto qui?», domandò lui, seccato perché l’avevano distolto dal suo lavoro.

«Chi può dirlo? Non siamo ancora andati di sopra», rispose lei, sperando di non trovarci un altro cadavere.

Lui estrasse una tuta dalla borsa e iniziò a vestirsi.

«La porta non è stata forzata», gli spiegò. «Be’, finché non siamo arrivati noi, per lo meno. Non credo che qui sia successo qualcosa, ma stiamo cercando indizi».

Il tecnico rispose con un grugnito e lei si avviò di sopra.

Bryant la seguì. «Un tipo allegro».

«È in gamba. Solo che gli piace l’azione. Se potessi, cederei subito il medico legale in cambio di Roy».

«Mmm… io anche no», rispose lui.

Nel corridoio stretto si affacciavano tre porte chiuse.

La prima che aprì conduceva in un bagno con la doccia sopra la vasca da bagno. Le bastò una rapida occhiata per capire che il padrone di casa non lo puliva spesso. Lo specchio dell’armadietto era disseminato di schizzi di dentifricio. Nella vasca da bagno la sporcizia disegnava una serie di cerchi concentrici simili agli anelli che si formano all’interno dei tronchi e indicano l’età degli alberi.

«A mia moglie sarebbe venuta una crisi isterica», commentò Bryant dalla soglia.

Kim uscì e tornò sul pianerottolo delle scale, appena in tempo per sentire Roy che chiudeva una chiamata.

«Ehi, detective», gridò. «Sei tu che istruisci quel rompipalle del tuo collega?».

Kim lanciò un’occhiata a Bryant, che si strinse nelle spalle.

«Che hai detto, Roy?», chiese lei, prendendo tempo.

«Il tuo sergente, Dawson. Gliel’hai detto tu di presentarsi al laboratorio e di insistere fino allo sfinimento per avere un’analisi chimica di quei chiodi?».

Kim non esitò. «Sì, lo so che è un po’ impaziente, ma abbiamo bisogno di quell’informazione. Non se ne andrà finché non l’avrà ottenuta».

«Sì, è quello che ha detto anche lui».

Kim si voltò per nascondere un sorrisetto.

Si sarebbe occupata in seguito del fatto che avesse preso quell’iniziativa senza il suo permesso; se la sua presenza al laboratorio serviva a fargli ottenere i risultati più velocemente, era ben felice che fosse lì.

Aprì la seconda porta e per poco non andò a sbattere contro un letto matrimoniale decisamente troppo grande, che occupava quasi per intero la camera modesta, lasciando a malapena lo spazio sufficiente per un comodino con la lampada.

«Controllo l’altra stanza», propose Bryant.

Kim aveva il sospetto che l’avrebbe trovata vuota.

Camminando di lato come un granchio passò davanti al pesante armadio di quercia, inciampando nel piumone che ricopriva il letto sfatto.

Aprì il primo cassetto del comodino e trovò delle mutande, alcuni bulloni e un paio di occhiali. Il secondo era vuoto.

«Maledizione», esclamò, chiedendosi se quell’uomo avesse dei conoscenti.

Stava per girare i tacchi e andarsene, quando qualcosa sotto la pila di cuscini attirò la sua attenzione.

Lo prese con due dita e tirò con delicatezza. Era il bordo di un polsino, rosa. Con una smorfia, Kim ricominciò a tirare. La manica, poi un cappuccio e un’altra manica. Con movimenti lenti e decisi tirò fuori l’indumento.

Una piccola felpa rosa con il cappuccio e, sulle spalle, la scritta “principessa” fatta di paillette.

«Ehi, capo», la chiamò Bryant dal corridoio.

Quando alzò la testa, vide la porta della cameretta aperta e Bryant che indicava un oggetto.

Il letto di un bambino, difficile sbagliarsi.

Lanciò un’altra occhiata alla felpa rosa che la loro vittima aveva tenuto sotto il cuscino.

Adesso, le domande senza risposta sul conto di Luke Fenton si erano moltiplicate, ma quella che prima di ogni altra le era balenata nella mente era: dove diavolo si trovava la bambina?