Capitolo 69
Dawson non riusciva a togliersi dalla testa la convinzione che il capo lo facesse apposta. Forse non era riuscito a dissimulare la sua avversione nei confronti dell’obitorio, oppure la detective l’aveva semplicemente intuita? Non trovava altre giustificazioni al fatto di ritrovarsi per la seconda volta in quel posto nel giro di due giorni.
«Ancora tu?», chiese Keats.
«Sì, sono entusiasta quanto te».
«A quanto pare qualcuno è già stato contagiato dall’umore pessimo del suo capo».
Dawson rispose con un grugnito, sperando che il medico legale si sbrigasse.
«Be’, sarai contento di sapere che ho già fatto l’autopsia, quindi non ti tratterrò a lungo».
Il suo morale si risollevò all’istante. In quel momento, il cellulare notificò l’arrivo di un’e-mail.
Fu tentato di prenderlo e leggerla, sperando che contenesse la risposta ai suoi interrogativi. Non poteva farsi mettere in ombra da una collega più giovane e meno qualificata.
«Le misure e il peso saranno indicati nella mia relazione, insieme al seguente fatto: la donna era gravemente denutrita e pesava almeno tre chili in meno rispetto al valore minimo corrispondente alla sua altezza. Il suo ultimo pasto, a base di hamburger e patatine fritte, è stato consumato solo un’ora o due prima della morte. Se avesse mangiato certa roba con regolarità non sarebbe stata in quelle condizioni. I capelli e le unghie non erano molto puliti e, in generale, la sua igiene personale lasciava a desiderare».
Dawson non capiva perché dovesse starsene lì ad ascoltarlo quando avrebbe potuto leggere tutto nella relazione.
«Collocherei l’ora del decesso tra le diciannove e la mezzanotte, come ho già detto alla detective Stone».
L’unico desiderio di Dawson era tirare fuori il telefono e scoprire chi gli avesse scritto. Per quel che ne sapeva, forse l’elemento chiave che avrebbe sbloccato il caso si trovava proprio dentro la sua tasca, sotto forma di e-mail.
«Posso confermare che è stato usato lo stesso coltello su entrambe le vittime; stavolta, tuttavia, il taglio della testa è molto più rozzo».
«Ma non dovrebbe essere stato più difficile tagliare il collo di Luke Fenton?», chiese. «Era più grosso, più robusto».
«Ah, finalmente una domanda che dimostra che sei presente. Sì, dev’essere stato molto più faticoso decapitare l’uomo».
«Quindi…», disse Dawson, in attesa di una spiegazione.
«La risposta la dovete trovare voi, sergente. Io posso confermare la tua supposizione, ma spetta a voi trarre le dovute conclusioni».
Dawson si sforzò di rimanere impassibile.
«C’è dell’altro?», chiese.
«Certo. Posso confermare che non risulta alcun trauma da corpo contundente, a differenza del caso di Fenton, e questa è un’altra faccenda da cui voi dovrete trarre…».
«…le dovute conclusioni», esclamò Dawson, finendo la frase al posto suo. Sì, aveva capito.
«Ti vedo annoiato, c’è qualcosa che vorresti sapere prima di leggere la relazione completa che invierò in giornata?».
Dawson pensò nuovamente all’e-mail che custodiva nella tasca.
«No, niente», rispose, avviandosi all’uscita. Se l’era cavata molto meglio di quanto aveva temuto.
«La tua risposta ovviamente è sbagliata, e dovresti saperlo», esclamò Keats quando era ormai sulla soglia. «In questi casi, prima di andartene devi sempre fare una domanda…».
Dawson ci pensò un attimo. Una sola domanda. Doveva per forza essere generica.
Trovata!
«C’è altro che dovrei sapere?»
«Esatto», rispose Keats, avvicinandosi alla scrivania in un angolo della stanza. «La risposta è sì». Gli mostrò una busta trasparente. «Questo era sotto la cintura dei jeans».
Dawson si avvicinò di qualche passo. «Cos’è?», chiese.
Era un oggetto rosso, largo poco più di due centimetri.
«Non ne ho idea».
Dawson osservò con attenzione l’oggetto di plastica. «Potrebbe essere una specie di pomello, o un tappo…».
«L’ho pensato anch’io».
Dawson prese il telefono e fotografò l’oggetto da tutte le angolazioni.
Quando ebbe finito, si rivolse nuovamente al medico legale. Era raro che si facesse ripetere le cose due volte.
«C’è altro che dovrei sapere?».
Keats sorrise. «No, per ora è tutto».