Capitolo 20
«Mi servono assolutamente i dati del traffico telefonico, Stacey», esclamò Kim non appena varcarono la soglia della sala operativa. «Sono sicura che la nostra vittima sia stata disturbata durante la cena da un messaggio o da una chiamata, perché è scappato via in tutta fretta. E dobbiamo controllare anche le telecamere della zona. Secondo me Fenton è salito sull’auto di qualcuno. In qualche modo dev’essere arrivato a Clent dal ristorante, e se avesse chiamato un taxi non avrebbe dovuto lasciare la cena a metà».
«Ho inviato una seconda e-mail dieci minuti fa, capo, ma temo che non ci rispondano prima di…».
«Accidenti», imprecò Kim, maledicendo il resto del mondo che staccava dal lavoro alle cinque di pomeriggio. Passò in rassegna le lavagne appese alla parete e notò alcuni nuovi appunti.
«Cosa sono?»
«Tutto ciò che sono riuscita a sapere sul senzatetto. Il suo nome, la conferma della mutilazione genitale, e il fatto che gli abbiano ritrovato addosso un campanellino».
«Ottimo lavoro, Stacey», esclamò Kim, sorpresa. «Domani parlerò con Woodward per farci assegnare il caso di Wolverhampton. Considerate le somiglianze fra i due omicidi, è impossibile che respinga la mia richiesta».
La sua prima mossa sarebbe stata chiedere a Keats di leggere la relazione dell’autopsia per avere la conferma che l’assassino fosse lo stesso, e poi avrebbe iniziato a indagare sulla vita di Tommy Deeley in cerca di eventuali legami con Luke Fenton. Aveva una miriade di idee per la testa, ma avrebbe dovuto aspettare l’indomani per agire.
«Bene, nel frattempo abbiamo portato un piccolo souvenir dalla casa della vittima», disse, posando il portatile sulla scrivania libera. «È giunto il momento di provare a forzare la password e vedere cosa c’è dentro».
«Posso?», chiese Stacey, che alla vista del computer si era quasi messa a sbavare.
«Accomodati pure», rispose Kim, facendosi da parte. Conosceva solo qualche trucchetto da principiante che si basava sul nome e sulla data di nascita.
Stacey si sedette e iniziò a battere sui tasti.
Kim aveva requisito computer e cellulari che avevano richiesto ore, se non giorni, di lavoro. Il loro livello di protezione era direttamente proporzionale alla quantità di materiale che contenevano. Anche in questo caso, sperava che il computer potesse essere una via per accedere all’uomo.
«Sono entrata», disse Stacey in tono deluso. Era stato un gioco da ragazzi.
«Di già?», domandò Kim.
«Il merito è suo, non mio», confessò l’agente in tutta sincerità. «La password è il suo nome seguito dalla data di nascita».
«Ah», esclamò Kim, e si accorse che Stacey ci era rimasta male. Era improbabile che un dispositivo a cui era così facile accedere contenesse qualcosa di importante.
«Posso curiosare un po’ qui dentro, capo?»
«Certo, fai pure», rispose Kim. Prese il pennarello e aggiornò le informazioni sulle lavagne, aggiungendo ciò che avevano scoperto durante la giornata.
«Capo, vado a prendere…?»
«Sarebbe bellissimo, Bryant, ma a partire da domani facciamo a turno». Apprezzava il fatto che la caffeina non mancasse mai nella loro stanza, ma non voleva che Bryant diventasse il loro maggiordomo.
Mentre l’agente batteva svelta le dita sulla tastiera, Kim la osservò con la coda dell’occhio. Aveva un’espressione concentrata e il suo corpo era proteso in avanti. Era animata dalla volontà di dimostrare quanto valeva, ma l’intensità del suo sguardo e il suo rapimento fecero comprendere alla detective quale fosse la passione, e il punto di forza, di quell’agente investigativo.
«Posso parlare liberamente, capo?», chiese Stacey, proprio mentre Bryant rientrava con due caffè e una bottiglia di Coca-Cola in mano.
«Come facevi a sapere che bevo solo Coca-Cola?», domandò Stacey sgranando gli occhi.
Bryant le sorrise. «Be’, forse il mio super potere risiede nelle mie doti di sensitivo, oppure ho notato quella lattina vuota nel cestino, che stamattina non c’era».
Stacey lo ringraziò con un sorriso.
«Dimmi, Stacey», esclamò Kim. «Non siamo nell’esercito. Non devi chiedermi il permesso».
«Va bene, è solo che c’è qualcosa che non mi torna».
«Vai avanti», rispose, chiedendosi se l’agente potesse tradurre in parole la sensazione di disagio che provava da quando avevano dato un nome alla vittima e non voleva saperne di andarsene.
«Per essere un maschio single al di sotto dei trent’anni, ho l’impressione che questa sia solo una piccola parte di lui. Ho trovato solamente un profilo anonimo con un unico post sospetto. Non ha neppure scaricato l’applicazione di Facebook».
«Magari ci accedeva dal telefono», osservò Bryant.
Stacey confermò quella possibilità con un cenno del capo. «Può darsi, ma se questo era il suo unico computer, si può dire che non avesse una vita. Alla gente piace avere tutto a portata di mano: sul cellulare, sul computer, sul tablet. Io ci tengo qualsiasi cosa. Lui non aveva neppure un account di posta elettronica collegato al computer e la cronologia è praticamente inesistente».
«Cancellata?», chiese Kim.
Stacey scosse il capo. «Avrebbe lasciato delle tracce».
«Il computer è nuovo?», chiese Bryant. «Forse doveva ancora trasferirci tutte le sue cose».
«Ce l’aveva da diciotto mesi».
Kim sospirò. In effetti, l’agente aveva centrato la causa della sensazione di disagio che le attanagliava lo stomaco.
«Sono passate dieci ore e sappiamo pochissimo della vittima, a parte il fatto che non era bravo», disse, citando le parole della signora del ristorante Wing Sun.
«Questa è l’unica cosa che ho trovato», disse Stacey, tornando alla sua postazione per ruotare lo schermo.
Kim lesse il post di Facebook e fece una smorfia.
«Che diavolo significa?».
Stacey si strinse nelle spalle.
«Allora», esclamò la detective, lanciando un’occhiata all’orologio. «Domani occupati di quello e del gestore telefonico, e per oggi ci fermiamo qui. Come primo giorno è stato infernale», disse, consapevole che nella sala operativa fossero presenti solo due terzi della sua squadra.
Il sergente Dawson avrebbe fatto meglio a presentarsi con qualcosa di buono per giustificare quell’assenza.