Capitolo 86

Bryant accostò all’indirizzo che Keats le aveva comunicato per telefono. Nel frattempo, erano successe due cose.

Il vicolo stretto era stato chiuso con il nastro segnaletico. E Kim era incazzata nera.

Sbatté il distintivo in faccia all’agente, chinandosi per entrare nella zona delimitata. In silenzio, afferrò le protezioni per le scarpe che un collega le porgeva.

Alle sue spalle sentì Bryant che mormorava delle scuse.

Doveva smettere di scusarsi al posto suo. Lei non era affatto dispiaciuta, era solo arrabbiata per quel vizio di Keats di chiamarla e farle attraversare di punto in bianco la Black Country.

Si precipitò all’interno della casa e raggiunse il soggiorno sul retro.

«Keats, sarà meglio che tu mi dia una spiegazione per…».

«È una spiegazione sufficiente, detective Stone?», domandò lui, facendosi da parte.

«Maledizione», esclamò Kim, non appena si trovò davanti quella scena e fu investita dall’odore.

In tutti quegli anni non aveva mai sentito un tale fetore provenire da un cadavere in decomposizione. Alcuni lo paragonavano a quello della carne putrefatta, con quel sentore dolce e nauseabondo, ma nessuna, fra le descrizioni che aveva ascoltato, rendeva fino in fondo l’idea. In quel caso, per di più, aveva svuotato l’intestino.

Si coprì il naso con la mano e cercò di inspirare a fondo, usando le dita come filtro.

Davanti a lei c’era un uomo con una felpa grigia, trapassata all’altezza del petto da una sola pugnalata. Dalla ferita partiva un rivolo di sangue che andava a congiungersi alla zona dei genitali, che aveva subìto un vero e proprio scempio.

Keats fece gli onori di casa e sollevò la pancia grassa dell’uomo affinché vedesse meglio.

Kim udì Bryant che inspirava forte con il naso.

L’inguine era stato raggiunto da numerose coltellate. Avevano fatto a pezzi il membro, e i testicoli erano attaccati al corpo da un filo di pelle.

Lo sguardo di Kim tornò al volto. Per farlo stare zitto gli avevano infilato in bocca una cravatta arrotolata. Per evitare che i vicini si allarmassero, probabilmente.

Gli occhi vuoti fissavano dritti davanti a sé e le guance flaccide pendevano ai lati della bocca carnosa.

Kim si guardò intorno.

Nella stanza c’erano cinque persone, ma faceva un caldo soffocante.

«La stufa è rimasta accesa al massimo», spiegò Keats. «Ma credo sia stato ucciso ieri notte».

Kim fu sorpresa di sentire un suo parere in una fase tanto prematura.

«È una tua ipotesi, Keats?», chiese. «Non credo che avrebbe questo odore terribile dopo poco più di dodici ore».

«Come ben sai, la decomposizione inizia nel momento stesso in cui il cuore smette di battere. In media, ci sono circa trentamila miliardi di cellule nel corpo umano, per non parlare di quelle all’interno del tratto intestinale, che sono il doppio, ed entrano tutte in azione subito…».

«Sì, ho capito, ma comunque…», ribatté Kim, arricciando il naso.

«Aggiungi il calore costante proveniente dalla stufa alla massa dell’uomo, e al fatto che il suo sfintere abbia rilasciato il contenuto…».

«Ho capito», tagliò corto la detective, che non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni, dato l’odore penetrante che le entrava nella bocca e nel naso.

Iniziò a guardarsi intorno in cerca di una lettera, di un documento. Nella stanza c’erano pochi mobili.

«Posso esserti d’aiuto anche su questo, se vuoi», esclamò Keats, come se fosse sintonizzato sui suoi pensieri. Quella prospettiva non le piaceva affatto.

«Dimmi», replicò Kim, per mettere alla prova i suoi poteri telepatici.

«Mi sorprende che tu non lo riconosca», le disse.

«Perché dovrei?», chiese Kim, guardandolo con più attenzione.

«Si chiama Charles Lockwood, e la sua vita in realtà è finita circa diciotto mesi fa».

Kim aggrottò la fronte: il nome le diceva qualcosa, ma non riconosceva quel viso.

«All’epoca era diverso. Era molto più magro, non proprio uno stecchino, ma neanche obeso».

Kim provò a immaginarlo con qualche chilo di meno. Iniziava a ricordare qualcosa.

«Teneva una rubrica in un programma televisivo del venerdì sera. Parlava più che altro degli eventi della zona, ristoranti, discoteche… li commentava e dava consigli. Fino al giorno in cui venne fuori che si faceva pagare per scrivere delle recensioni positive».

«Ah, forse ricordo. È scomparso dai nostri schermi all’improvviso».

Keats annuì. «E non è finita lì. Ha perso tutto. La casa, le auto. Sua moglie se n’è andata, a dire la verità non ha avuto scelta. È stato processato ed è finito in prigione, e a giudicare dalle condizioni di questa casa non deve essere uscito da molto».

Kim si accigliò. Fino a quel momento, nessun dettaglio che corrispondesse al profilo delle vittime.

«E anche stavolta so cosa stai pensando. La risposta è sì».

«È stato coinvolto in uno scandalo per abusi sessuali?».

Keats annuì. «Così pare. La notizia è circolata in rete, ma l’articolo è stato cancellato. La figlia maggiore aveva all’incirca sette anni all’epoca».

Per quanto il filo diretto che collegava Keats ai suoi pensieri la mettesse in allarme, a prevalere in quel momento fu il disgusto. Se davvero era colpevole, come aveva detto Keats, la sua morte, e l’orribile violenza che la caratterizzava, la lasciavano indifferente. I suoi sentimenti nei confronti della vittima, tuttavia, non cambiavano il fatto che l’assassino andasse trovato al più presto. Kim credeva nella giustizia e nel sistema.

«L’autopsia sarà alle nove domattina. È stata una giornata molto lunga», disse Keats.

Lei lo ringraziò e si avviò alla porta.

«Bryant, il delitto è ovviamente collegato ai nostri casi. La mutilazione genitale è identica a quella di altre due vittime, ma come, esattamente…?»

«La moglie, capo», la interruppe il sergente. «Quella donna aveva perso tutto. Doveva pur trovare un posto dove stare».

Kim seguì il filo dei suoi pensieri e un sorriso si dipinse sul suo volto.

«Ottima supposizione, Bryant. Ottima supposizione».