Capitolo 45

«Vorresti dire che quella Marianne Forbes è sua nipote?», chiese Bryant, mentre si dirigevano verso Dudley.

«Così dice Stacey. È andata a vivere con lui quando aveva nove anni perché i suoi genitori sono morti travolti da una valanga. All’epoca lei stava in un collegio e Lester Jackson, il fratello di sua madre, era l’unico parente in vita, oltre a essere un ex pastore della Chiesa metodista».

«Hai visto l’articolo su di lei la settimana scorsa?».

Kim annuì. Il quotidiano aveva dedicato due intere pagine all’apertura della sua quarta casa d’accoglienza per donne in difficoltà della zona. A Walsall, stavolta.

Marianne Forbes era una leggenda da quelle parti, una benefattrice che aveva consacrato la propria esistenza alla causa della violenza sulle donne. Compariva spesso al telegiornale per dare la sua opinione su qualunque tema legato all’infanzia e al genere femminile, dalla violenza domestica alla parità retributiva.

Nei tanti articoli che parlavano di lei si leggeva che aveva utilizzato una parte del suo fondo fiduciario per aprire il primo centro, per poi creare un’associazione di volontariato o una fondazione, questo Kim non lo ricordava; e si diceva anche che fosse abilissima nell’aggiudicarsi donazioni e servizi gratuiti da parte delle aziende e delle attività commerciali della zona.

Le sue strutture si trovavano a Dudley, Willenhall, Bilston e adesso anche a Walsall.

Poiché la sede legale dell’associazione era a Dudley, avevano deciso di cominciare da lì.

«Mi sono perso qualcosa?», chiese Bryant, quando giunsero alla fine di Furlong Road.

«Sto cercando il civico novantaquattro e mi ritrovo al novantatré».

Anche Kim si sporse in avanti per guardare, mentre procedevano a passo d’uomo nella via costeggiata da schiere di edifici vittoriani a tre piani.

«Aspetta un momento, quello cos’è?», chiese, indicando un cancello di metallo in fondo alla strada. L’ingresso era circondato da una siepe di conifere alta e fitta che nascondeva completamente alla vista l’interno. Niente scritte, né numero civico, né targhetta con il nome.

«Ah, vedi?», esclamò Bryant dirigendosi da quella parte.

Sulla destra si ergeva una colonna di mattoncini dotata di citofono.

Il sergente accostò, portando il cofano a pochi centimetri dal cancello.

«In questo caso non credo che uscirà qualcuno», osservò, ricordando come erano entrati nel palazzo di Lisa poco prima.

Si sporse e suonò il campanello. Rispose una cupa voce maschile, che disse: «Sì?».

Bryant fece le presentazioni, forse per la centesima volta quel giorno.

«Per favore, accostate il distintivo al parabrezza».

Il sergente infilò la mano in tasca ed estrasse il tesserino, come richiesto.

Kim si drizzò sul sedile, cercando di capire dove fosse la telecamera.

«Entrambi, per favore», disse la voce.

Mentre seguiva l’esempio del collega, Kim gli lanciò un’occhiata; aveva l’inquietante sensazione che la telecamera si trovasse dentro l’auto.

«Avete sei secondi di tempo per entrare», li informò la voce.

Il cancello si schiuse, aprendosi verso l’interno.

«Accidenti, che segreti ci tengono qui dentro?», esclamò Bryant, con il piede sospeso sull’acceleratore, pronto a sfrecciare all’interno.

«Donne vulnerabili», rispose Kim, che apprezzava la severità delle misure di sicurezza.

Il timer del cancello serviva a impedire che mariti e compagni particolarmente aggressivi e determinati, vedendo qualcuno entrare, avessero il tempo di seguirlo a ruota.

Bryant girò intorno a una quercia robusta che nascondeva l’edificio.

Lo spiazzo anteriore non era grande come Kim si sarebbe aspettata: la casa vittoriana infatti si trovava a non più di quindici metri dal cancello.

Per Bryant non fu facile trovare un posto libero tra le auto e i furgoni dei tecnici che affollavano il cortile. Alla fine parcheggiò tra una Ford Mondeo e una Mercedes argentata, che Kim immaginò appartenesse a Marianne in persona. Kim non la invidiava. Se l’era guadagnata col duro lavoro.

Per due volte, Bryant sollevò e fece ricadere il pesante batacchio.

Venne ad aprire un uomo. Sia Kim che il sergente furono costretti ad alzare la testa. La sua mole imponente riempiva il vano della porta. Indossava un paio di pantaloni neri, un maglioncino blu e un cordino al collo da cui pendeva il tesserino da guardia giurata.

Kim guardò il distintivo e apprese che quella montagna umana, con cui avevano parlato poco prima al citofono, si chiamava Jason, un nome che stonava con il suo faccione barbuto.

«Posso aiutarvi?», chiese in tono gentile.

«Vorremmo parlare con Marianne Forbes, se è disponibile».

«Mi dispiace, ma al momento è occupata».

«Si tratta di suo zio, che…».

«Va bene, Jay, puoi lasciarli entrare», esclamò una voce femminile dall’interno.

Alle sue parole, l’uomo si fece da parte. Varcata la soglia, Kim notò due porte, una su ogni lato dell’atrio; in fondo ce n’era una terza, che conduceva al resto della casa.

A destra l’ufficio, a sinistra la stanza della security. Affacciavano entrambe sul cortile antistante.

“Controllano gli ingressi”, pensò Kim. Ancora una volta apprezzò la serietà con cui si facevano carico della sicurezza delle proprie ospiti.

«Prego, entrate», disse Marianne, alzandosi in piedi.

Kim notò il suo aspetto raffinato, lo stesso che aveva nelle foto pubblicate sul giornale.

Aveva poco meno di cinquant’anni. Portava i capelli biondo miele pettinati all’indietro, in una coda di cavallo semplice ma talmente perfetta che nemmeno uno era fuori posto. Un filo di trucco metteva in risalto i penetranti occhi azzurri e gli zigomi alti. Alle orecchie portava un paio di brillantini, che insieme a una catena sottile intorno al collo e un orologio da uomo con il quadrante enorme erano gli unici gioielli che indossava.

Le tese la mano e Kim rispose alla sua stretta.

Una stretta asciutta, decisa.

«Signora Forbes, potremmo…?»

«Chiamatemi Marianne», la corresse, invitandoli a sedersi con un cenno.

Jason, la guardia giurata, richiuse la porta del bell’ufficio che un tempo, a giudizio di Kim, era stata la biblioteca di casa.

«Vorremmo parlare con lei di suo zio».

Il volto della donna si irrigidì e Kim notò lo sforzo che faceva per rimanere calma.

«Ma non se ne occupa un’altra forza di polizia? Ho già parlato con alcuni detective del dipartimento della West Mercia».

A un tratto Kim ripensò al sergente Greene, il primo ad arrivare sulla scena del delitto. E adesso il caso era passato alla West Mercia.

«Stiamo indagando su un delitto che presenta alcune somiglianze con quello di suo zio».

«Ci sono due…». Marianne non terminò la frase.

«Due?», chiese Kim.

Lei scosse la testa. «Non importa. Non vedevo mio zio da anni, come ho detto ai vostri colleghi, quindi non so come potrei esservi utile».

«È stato un delitto particolarmente brutale, Marianne».

«Me l’hanno detto. Ma io non ho avuto più rapporti con mio zio dall’età di sedici anni».

«Non ha vissuto con lui dopo la morte dei suoi genitori?».

Lei annuì. «Mio zio aveva i suoi buoni motivi per accogliermi in casa, soprattutto economici. Lui e la sorella erano di umili origini, ma la mamma aveva sposato un uomo facoltoso. Mio zio non si è mai impegnato per migliorare la sua situazione, e devo dire che la loro morte si è rivelata un vero e proprio colpo di fortuna per le sue finanze».

La franchezza di quelle parole colpì molto Kim.

«Ma doveva pur esserci qualcuno a cui suo zio piaceva», intervenne Bryant.

«Se c’era, io non l’ho mai conosciuto. E non ho idea di chi possa avergli fatto questo. Non lo vedevo da più di trent’anni».

Kim fiutò la presenza di strane dinamiche. Le premeva scoprire se ci fosse un qualche collegamento tra l’omicidio di Lester Jackson e il suo caso, ma l’atteggiamento della donna stava facendo scattare più di un campanello d’allarme dentro di lei.

«Non gli è stata riconoscente quando l’ha presa a vivere con sé?»

«Non provo nessuna gratitudine nei suoi confronti, a differenza di molte persone che si trovano qui», rispose, alzandosi dalla sedia. «Venite con me».

Kim non aveva chiara la situazione e si limitò a obbedire.

Marianne attraversò l’atrio e li condusse nella sala della security. Era grande più o meno come il suo ufficio, e in passato doveva essere stata adibita a salottino. Se nella prima stanza avevano scelto di conservare alcuni dettagli d’epoca, lì avevano puntato soprattutto sulla funzionalità.

Jason era seduto a una scrivania a mezzaluna circondata dai monitor collegati alle videocamere di sorveglianza. Il primo, suddiviso in quattro riquadri come gli altri, copriva l’esterno, davanti e dietro l’edificio. Kim capì che quella che li aveva inquadrati mentre mostravano il distintivo era installata dentro le sbarre del cancello.

Sul retro, le telecamere inquadravano un giardino cinto da un muro, riprendendolo da diverse angolazioni.

Marianne era in piedi accanto a lei.

«Ovviamente non posso farvi entrare perché le nostre ospiti si agiterebbero, ma vorrei mostrarvi quello che facciamo qui». Indicò la cucina. «Quella è Dawn, sta studiando per diventare nutrizionista e viene da noi un paio di volte la settimana per insegnare alle nostre ragazze come cucinarsi pasti semplici e nutrienti». Indicò un altro monitor. «E quello in soggiorno è Nigel. Viene a trovarci nel pomeriggio, due volte la settimana, per tagliare i capelli alle ospiti. Così si sentono meglio con loro stesse».

Kim vide un uomo magro con un paio di jeans aderenti e una maglietta stretta, i capelli rasati sotto e biondi sopra, la frangia che ricadeva sulla fronte; reggeva uno specchio per mostrare a una donna seduta in poltrona come era venuto il taglio.

Marianne indicò un terzo monitor.

«Lei è Louella, una counselor dell’Esercito della salvezza, che all’occorrenza viene a parlare un po’ con le ospiti. Queste persone donano il loro tempo e i loro servizi a donne che devono ricostruire vite distrutte da violenze fisiche, sessuali e psicologiche».

Le parole “vite distrutte” le entrarono sottopelle. Tutte quelle donne avevano sofferto per mano di persone che nella maggioranza dei casi erano loro molto vicine, persone che amavano o avevano amato, di cui si erano fidate, a cui si erano affidate. Non poté fare a meno di pensare a sua madre, la persona di cui lei avrebbe dovuto potersi fidare.

Scacciò quel pensiero e tornò al presente, un luogo sicuro per lei.

«E lui chi è?», domandò, scorgendo una figura maschile, rara da quelle parti, sopra una scala montata sul pianerottolo delle gradinate.

«Quello è Carl. Lui e suo fratello Curt si occupano della manutenzione delle nostre strutture». Marianne si voltò verso Kim. «Mi sembra sorpresa».

«Avrei detto che la presenza maschile in questo posto fosse…».

«Non incoraggiamo le nostre ospiti a odiare e a evitare tutti gli esponenti del genere maschile. Tuttavia, cerchiamo di limitare la loro presenza all’indispensabile. Infatti Carl e Curt sono gli unici che vengono regolarmente…».

«Ehm». Jason si schiarì la voce.

Marianne gli toccò una spalla. «Scusa, Jay. Ovviamente, c’è anche la squadra degli addetti alla sicurezza, quattro in tutto, che vegliano su di noi ventiquattro ore su ventiquattro. Il nostro Jason è il supervisore».

Lui annuì soddisfatto e continuò a scrutare i monitor.

Kim si soffermò per qualche secondo su una coppia di mamme nella sala dei giochi, assieme ai loro figli. Altre erano sedute in un salotto a chiacchierare. In una stanza, una donna era intenta a leggere un libro mentre il suo piccino gattonava sul pavimento.

«Quanti posti ci sono nella struttura?», domandò Kim, tornando con Marianne nel suo ufficio.

«Questo è il centro più grande, possiamo ospitare fino a un massimo di quattro mamme con i bambini e dodici donne sole».

«Rimangono qui a lungo?», domandò Kim, chiedendosi quante di loro avessero il desiderio di abbandonare quell’ambiente protetto.

«Di solito, dopo circa sei mesi abbiamo l’impressione di avere fatto tutto il possibile, ma dipende dai casi. Alcune ospiti si fermano per periodi più brevi, poche settimane, il tempo di decidere quale strada prendere: tornare a casa, o trasferirsi altrove. Comunque, finché restano qui noi facciamo il possibile per…».

Qualcuno bussò alla porta, interrompendola.

«Entra», esclamò Marianne, nonostante fosse impegnata a parlare con loro. Kim immaginò che niente fosse più importante per lei che accogliere ogni possibile richiesta delle sue ospiti.

Sulla porta comparve Nigel, con un paio di forbici e un pettine in mano. «Sei pronta per…?»

«Dammi cinque minuti, caro».

«Nessun problema», rispose lui con un sorriso. Aprì e richiuse le forbici, squadrando lei e Bryant. «Qualcun altro desidera un taglio gratuito?»

«Siamo a posto, grazie», disse Kim, e l’uomo uscì dalla stanza.

«Io lo pago, per quel poco che mi chiede», si affrettò a precisare Marianne quando la porta si richiuse.

«Certo», rispose Kim. Non lo metteva in discussione. Non poté fare a meno di restare colpita dalla dedizione e dall’energia che la signorina Forbes metteva nel suo lavoro.

Tuttavia, le era rimasto un dubbio su una frase che aveva detto poco prima. «Ha detto che queste donne provano gratitudine nei confronti di suo zio. Perché?»

«È stato merito suo se ho aperto la casa d’accoglienza».

Kim aggrottò la fronte. «Mi dispiace, ma non capisco…».

Ammutolì. Marianne la guardò dritta negli occhi con un’espressione che non lasciava spazio a dubbi.

A un tratto, capì quel che intendeva.