Capitolo 36

La polizia del Warwickshire era stata fondata nel 1840 e nel tempo aveva subìto più accorpamenti e trasformazioni di qualsiasi altra, almeno a quanto ricordava Kim.

Nel 2006 era stata avanzata la proposta di unire le forze del Warwickshire, delle West Midlands e della West Mercia per formare un unico corpo, ma il progetto era stato accantonato in seguito alle aspre proteste dei cittadini.

Attualmente era suddivisa fra distretti e quartieri, e contava trentatré squadre locali. Una di esse aveva sede in Rother Street, a Stratford-upon-Avon, dove Bryant stava parcheggiando in quel momento.

«Non so se saranno disposti a condividere con noi le loro informazioni», disse il sergente sistemando l’auto accanto a una BMW X5. In passato la polizia del Warwickshire aveva affiancato il corpo delle West Midlands e della West Mercia per la creazione di un nucleo speciale addetto alla vigilanza delle centinaia di chilometri di autostrada presenti nella loro regione.

«Be’, andiamo a dare un’occhiata», esclamò Kim aprendo la porta. Si avvicinò alla scrivania. «Il sergente Greene?».

«Per favore», aggiunse Bryant dalle retrovie. «È libero?».

L’agente in divisa preferì rivolgersi al sergente. «E voi siete…?».

Bryant estrasse il distintivo e fece le presentazioni.

L’agente afferrò il telefono.

Bryant arretrò. «Un simpaticone», sussurrò al capo.

«Ti sorprende?», chiese Kim. Da quelle parti ne avevano dovute sopportare di tutti i colori.

«Siamo tutti sulla stessa barca, capo», ribatté il sergente.

In quel momento, la porta alla loro sinistra si aprì.

Un uomo magro, con indosso una T-shirt nera che lasciava scoperte le braccia pallide, rivolse loro un mezzo sorriso. «Posso aiutarvi?».

Kim rimase zitta. Volevano ottenere qualcosa ed era ormai chiaro che il collega ci sapesse fare più di lei con le persone.

Bryant interpretò il suo silenzio come un segnale.

«Potremmo scambiare due parole a proposito del corpo che avete ritrovato a Redland Hall?».

Il volto dell’uomo si irrigidì, tuttavia annuì e fece loro cenno di entrare dalla porta che era rimasta aperta.

Dopo una decina di gradini, lo seguirono all’interno di un piccolo ufficio privo di finestre, con due sedie di plastica.

C’era una sola bacheca, ingombra di fogli fissati gli uni sopra gli altri con le puntine; Kim si chiese se i documenti sepolti fossero importanti.

L’uomo occupò la sedia più vicina alla scrivania. Kim fece segno a Bryant di sedersi e rimase in piedi sulla soglia.

«Non credo di potervi dire molto ma…».

«Non sta conducendo lei le indagini?», chiese Kim. Le avevano fatto il suo nome.

«Eh, magari», rispose lui in tono amaro. «Ho svolto il sopralluogo sulla scena del delitto, sono stato il primo ad arrivare e ho identificato la vittima, poi il caso mi è stato tolto».

«A chi l’hanno assegnato?», domandò Bryant.

«Una task force congiunta; noi e quegli stronzi della West Mercia».

Kim aveva quasi dimenticato il recente accorpamento, in seguito al quale le due unità avevano cominciato a condurre insieme le indagini, a condividere le unità di supporto e il personale al di sotto del grado di vicecapo.

«Quindi se ne occupano da Worcester?», fece Kim.

Lui annuì. «Alcuni dei nostri sono là, ma…». Aprì le mani, senza finire la frase. Non ce n’era bisogno.

La polizia della West Mercia si era impossessata del caso, c’era da aspettarselo. E di sicuro non avrebbe tollerato un’intrusione da parte loro.

Per Kim, la priorità era tentare di stabilire se quel delitto fosse davvero collegato all’omicidio di Luke Fenton. I casi simili si stavano moltiplicando, peccato che solo uno fosse sotto la sua responsabilità.

«Quindi, cosa avete trovato?».

L’uomo prese una cartellina dalla prima vaschetta del raccoglitore colmo di fogli posato sulla scrivania

«È il fascicolo?», domandò Bryant. La cartellina sembrava vuota.

«Sì, purtroppo. Mi sono occupato del caso solo per tre ore».

Kim si sforzò di non sentirsi infastidita per lui. Un detective impiegava pochi minuti a fare proprio un caso. Succedeva praticamente all’arrivo sulla scena del crimine. Quando posava gli occhi sulla vittima, osservava la posizione del corpo, le ferite, le circostanze della morte, nasceva un legame, una connessione, non solo con il malcapitato, anche con l’assassino. Era un bisogno istintivo di scoprire tutti i particolari della vicenda, di trovare il responsabile.

Vederselo strappare dalle mani dopo poche ore era umiliante, un colpo duro da sopportare.

«La vittima era un uomo di cinquantaquattro anni di nome Lester Jackson, pugnalate multiple, ferita mortale al cuore».

«Decapitato?», chiese Kim.

Lui scosse la testa. «Niente da segnalare sopra le clavicole, ma sotto un vero macello».

«Sotto…», disse Bryant indicando tra le gambe.

«Sì, l’assassino ci ha dato dentro laggiù».

Per il momento, dunque, l’unica somiglianza riguardava la mutilazione genitale.

«Chi ha rinvenuto il cadavere?», domandò Kim.

«Saccheggiatori», rispose lui. «I miei colleghi hanno controllato, ho sentito dire che sono tutti puliti. Il National Trust è entrato in possesso della tenuta qualche anno fa, ma da allora non sono riusciti a combinare niente. E ormai da tempo rappresenta una fonte di guadagno per i malviventi della zona. È un palazzo enorme ed è difficile chiuderlo agli estranei». Rabbrividì. «Che luogo orribile». Socchiuse gli occhi. «Non starete pensando di andarci, vero?»

«Certo che no», rispose lei. «Il caso non è nostro. Mi dica, per curiosità, dov’è stato rinvenuto esattamente il corpo?»

«Be’, è una delle cose che ho trovato bizzarre; tra tutti i posti a disposizione, centinaia di stanze e saloni, quel tizio è stato ammazzato in uno sgabuzzino minuscolo, nascosto nel sottoscala».