Capitolo 88

A Stacey era bastato fare un rapido controllo all’interno delle liste elettorali per trovare una donna di nome Wendy Lockwood residente a Gornal.

La zona di Gornal si estendeva nella parte occidentale del distretto di Dudley e, storicamente, comprendeva tre borghi: Lower Gornal, Upper Gornal e Gornal Wood. Quest’ultimo, famoso per il pub The Crooked House e per essere stato l’epicentro del terremoto di grado 4,8 della scala Richter che nel 2002 aveva colpito Dudley, sembrava lontanissimo, neanche fosse nello Yorkshire.

«Ah, Il maiale sul muretto», esclamò Bryant superando un McDonald’s.

«Eh?», disse Kim, voltandosi per capire cosa si fosse persa. Non aveva visto nessun maiale.

«Lì, una volta, c’era un hotel che si chiamava Il maiale sul muretto», le spiegò.

«Che nome assurdo per un albergo».

Lui sorrise. «Secondo una leggenda che circola da queste parti, una volta il passaggio di una banda musicale militare portò un tale scompiglio che tutti i paesani accorsero sulla via principale, e un tizio mise addirittura il suo maiale su un muretto per farlo assistere allo spettacolo».

Kim inarcò un sopracciglio. «Bryant, ti prego, dimmi che siamo quasi arrivati».

«Sì, la via è questa, e quella è la casa che cerchiamo», disse, indicando con un cenno l’altro lato della strada.

La casa era al centro di una piccola schiera di tre abitazioni. Dall’inizio alla fine della via, tutte le piazzole lungo la strada erano occupate. Davanti al numero 23 era parcheggiata una Fiat Yugo malconcia, che sembrava più vecchia di lei e Bryant messi insieme.

Quando la porta si aprì, si ritrovarono davanti una bellissima donna sui trentacinque anni, con i capelli biondo ramato e la carnagione chiara. Kim sentì delle voci di bambine provenire dall’interno.

«Wendy Lockwood?», domandò, mostrandole il distintivo.

Lei annuì. Sul suo volto comparve all’istante un’espressione d’allarme, che si stemperò solo quando ricordò che le sue figlie erano in casa, al sicuro.

«Siamo qui per parlare di suo marito», spiegò Kim con voce calma.

Lei incrociò le braccia. «Se riguarda lui non mi interessa, qualsiasi cosa abbiate da dirmi».

«Signora Lockwood, invece credo che le interessi, ma è meglio non parlare in presenza delle sue figlie».

La sua irritazione si trasformò in perplessità. Li invitò a entrare.

Kim la seguì nella piccola cucina sul retro dell’edificio, dove due bambine, ancora vestite con la divisa della scuola, erano intente a contendersi una matita viola.

Dal profumo capì che le piccole stavano aspettando la merenda.

Quando lei e Bryant varcarono la soglia, le bambine si immobilizzarono; entrambe li guardarono con sospetto, ma a Kim parve di scorgere un’ombra di paura negli occhi della maggiore. Le rivolse un sorriso sperando di rassicurarla, ma l’espressione della bambina, che si voltò a guardare la mamma, rimase immutata.

«Bambine, andate a cambiarvi, il tè è quasi pronto».

«Non voglio», si impuntò la maggiore, che nel frattempo si era impossessata della matita.

«Chi sono?», chiese la più piccola, socchiudendo gli occhi.

«Vi ho detto di andare di sopra», ribadì Wendy.

Nessuna delle due si mosse.

«Niente iPad dopo cena se non…».

Non ebbe bisogno di finire la frase; lo stridere delle sedie sul pavimento riempì la stanza.

«Anch’io reagivo così da piccolo quando mi minacciavano di non farmi vedere la televisione», disse Bryant, rivolgendo un sorriso alla donna.

Lei non ricambiò e, prima di parlare, attese che le voci delle bambine, che avevano ripreso a bisticciare, si allontanassero.

«Cosa dovete dirmi?», domandò.

«Suo marito è morto», rispose Kim, senza preoccuparsi di indorare la pillola.

Wendy sgranò gli occhi e si coprì la bocca con la mano.

«Oh, mio… Dio… come… quando… cioè…». La sua voce si affievolì mentre raggiungeva a tentoni la sedia su cui era stata seduta la figlia maggiore fino a poco prima. «Non posso…».

Kim rimase in silenzio, aspettando che la donna superasse lo stordimento iniziale.

«Ditemi cos’è successo, per favore».

Choc, orrore, ma nemmeno una lacrima, osservò Kim. Dopo ciò che aveva appreso da Keats, non si stupiva.

Pensando che la donna fosse in grado di reggere la verità, proseguì. «Mi dispiace, suo marito è stato assassinato, signora Lockwood».

Sul suo volto si dipinse una smorfia incredula. «No… voi… non è… no», balbettò, scuotendo il capo.

«Non è facile dare certe notizie», spiegò Kim. «È stato un delitto brutale e abbiamo preferito comunicarglielo noi prima che lo facesse qualcun altro».

«Odiavo quell’uomo, ma non al punto di…».

«Capisco», ribatté Kim, guardandola negli occhi per farle capire che sapevano degli abusi. «Ma qualcuno lo odiava al punto da fargli del male. Ci sono anche altre cose di cui vorremmo parlare».

«Prego, ditemi, se posso esservi d’aiuto…».

«Lei ha perso tutto perché suo marito accettava mazzette per pubblicizzare alcune attività della zona?»

«Sì, non mi è rimasto niente, detective. Eravamo persone importanti, per via del suo lavoro. Facevamo una bella vita, eravamo delle celebrità, nel nostro piccolo. Le bambine avevano tutto ciò che potessero desiderare. Eravamo ammirati, avevamo molti amici e ovunque ci trattavano bene. Ero totalmente ignara del fatto che il suo stipendio finisse dritto sul tavolo da black-jack, insieme alle rate del mutuo. Quando lo scoprirono, aveva accumulato quasi settantamila sterline di debiti e la sua faccia finì su tutti i giornali. Perdemmo tutto, io e le bambine. All’improvviso, eravamo delle reiette della società. Le mie figlie persero gli amici; e anch’io, a essere sincera. Ci trattavano come lebbrose per colpa sua».

Kim alzò una mano. «Capiamo che debba essere duro ritrovarsi senza niente, signora Lockwood. Ma per quanto fosse grave, le sarà sembrato un problema insignificante in confronto al fatto che sua figlia…».

«Infatti», confermò la donna. Tutti i muscoli del suo volto si irrigidirono. «L’avevo già lasciato. All’epoca vivevo in albergo, stavo prosciugando la nostra carta di credito in attesa di trovare una soluzione migliore e decidere dove potevamo stabilirci. Le bambine non capivano fino in fondo quel che stava succedendo, e poi, una sera, mentre la mettevo a letto, Sasha mi ha chiesto se la colpa era sua. Mi ha domandato se la colpa era sua perché aveva pensato di raccontare alla maestra il suo segreto». Wendy abbassò la testa, e Kim non le fece pressione. Qualche secondo dopo riprese fiato e proseguì. «Tre ore dopo mi ha raccontato tutta la storia, dicendomi che il padre abusava di lei da circa dieci mesi. Le aveva detto che se ne avesse parlato con qualcuno io sarei morta, oppure sarebbe morta lei, e la bambina era terrorizzata».

«Signora Lockwood, non riesco a immaginare cosa…».

«Ha ragione, detective. Non può. Finché una persona non ci si trova, non riuscirà mai a capire il senso di colpa e l’odio che si prova verso sé stessi. Non le racconterò i miei incubi, ma le basti sapere che non potrò mai rimediare, non potrò mai perdonarmi per non essermi accorta di quello che stava succedendo sotto i miei occhi».

“E allora è giusto che tu non lo faccia”, pensò Kim, tenendo per sé quella riflessione. Secondo lei era impossibile che la bambina non avesse mostrato qualche segno di disagio: il fatto che non volesse mangiare, che non volesse andare a letto o che si fosse chiusa in sé stessa. Kim li conosceva sin troppo bene.

«È andata alla polizia?», le chiese.

La signora Lockwood scosse il capo. «Sasha mi ha implorato di non farlo. Era terrorizzata all’idea di dover raccontare quel che le era successo a un estraneo. Ho tentato di convincerla, aggiungendo altri sensi di colpa a quelli che già avevo, e l’ho quasi forzata a fare ciò che non voleva. A un certo punto mi sono sentita come suo padre e mi sono arresa». Si strinse nelle spalle e aprì le mani. «Spero solo che sia stata la decisione giusta».

«Che cosa ha fatto, quindi?», domandò Kim, portandola verso l’argomento che voleva approfondire. Non aveva niente da dire per offrirle conforto. Sarebbe accaduto solo con il tempo, se Sasha avesse superato quell’esperienza traumatica.

«L’ho chiamato e l’ho minacciato in tutti i modi. Gli ho rovesciato addosso tutti gli insulti che mi sono venuti in mente e gli ho detto che non avrebbe mai più rivisto le sue figlie. Il giorno seguente, ha bloccato l’ultima carta di credito in cui era rimasto del denaro. Sono riuscita a pagare il conto dell’albergo chiedendo favori alle poche persone che ancora non mi avevano voltato le spalle. Poche e lontane, dopo lo scoppio dello scandalo».

«E non aveva un posto dove andare?», la incalzò Kim.

Lei annuì. «Avevo letto un articolo su Marianne Forbes e le sue case d’accoglienza, perciò mi presentai a Dudley con tre valigie e le mie due bambine. Per fortuna è riuscita a fare un po’ di spazio, per non mandarmi via. Mi ha salvato la vita».

Due giorni prima non aveva fatto la stessa cosa per Hayley Smart, pensò Kim.

«Vada avanti», disse.

«Ci ha dato l’opportunità di creare una nuova famiglia, composta dalle bambine e da me. Si sono presi cura di noi, e noi abbiamo accettato l’idea di essere in tre, e non più in quattro. Il periodo che abbiamo passato da Marianne mi ha dato modo di acquisire la forza e la sicurezza necessarie per prendermi cura delle mie bambine da sola».

Kim percepì l’orgoglio che le venava la voce.

«Ho capito che potevo farcela da sola e che avrei dato qualsiasi cosa per proteggere le mie bambine. Per questo devo ringraziare Louella, e devo dire che anche Sasha ha risposto bene durante le sedute di counseling». Sorrise. «Sono diventate grandi amiche, quelle due».

«E lei?», chiese Kim. «Ha creato dei rapporti di amicizia?».

Nonostante scuotesse il capo, il tenue rossore che le colorì le guance la tradì. Kim comprendeva le dinamiche di quel genere di luoghi. Era un po’ come negli ospedali, in un ambiente estraneo le persone legavano con maggior facilità. Hayley aveva rappresentato un’eccezione, ma lei era abituata a fare affidamento solo sulle sue forze e non si apriva con gli altri, mentre Wendy Lockwood era ben diversa. A lei avevano dovuto insegnare che poteva farcela da sola. Wendy era bisognosa di aiuto, di una stretta di mano, di un po’ di affetto.

Kim ripensò alle fotografie dei Lockwood che aveva visto sui giornali, risalenti a prima dello scandalo. Erano stati una bellissima coppia, sempre ospiti di ristoranti ed enoteche, trattati con i guanti dai gestori che volevano entrare nelle loro grazie e ottenere una bella recensione in tivù. Un genere di pubblicità che i soldi non potevano comprare.

Anche da sola, Wendy Lockwood era sempre attraente e probabilmente spiccava tra le ospiti della casa d’accoglienza. Alcune delle regole imposte da Marianne potevano risultare più difficili da seguire per certe persone.

«Non deve sentirsi in colpa, Wendy», le disse, decidendo di correre il rischio. «Sono cose che succedono, soprattutto quando una persona è vulnerabile può…».

«Oh, no, non è successo niente, non era quel genere di relazione», protestò la donna.

Quindi, qualcosa era successo.

«Certo. È comprensibile che lei abbia sentito il bisogno di parlare con qualcuno, di confidarsi, anche solo di avere una persona con cui passare il tempo».

«Proprio così», rispose lei, annuendo.

Kim non sapeva quanto la loro relazione fosse stata intima, e non le importava. Le rimaneva un’unica domanda da fare.

«Quale dei due, Curt o Carl?».

E la risposta di Wendy non la sorprese affatto.