Capitolo 6

L’agente Stacey Wood si passò la mano sulla fitta chioma di ricci neri che le coprivano la testa, godendosi la sensazione dei capelli veri contro il palmo.

Aveva tolto da poco le extension ed era felice di riavere i suoi capelli. Dopo due settimane aveva capito che le avevano cucite troppo strette, per questo le causavano dolore e fastidio alla cute. Per il momento si sarebbe tenuta i suoi ricci e li avrebbe sfoggiati con orgoglio.

Si guardò nello specchio a figura intera, un dono di zio Cedric. Gran parte del mobilio del suo nuovo appartamento l’aveva ereditato da qualche parente o da qualche membro della comunità nigeriana di Dudley e dintorni. Le piccole comunità erano così, ognuna era un’unica grande famiglia. Le tornò in mente quando suo padre era stato licenziato dalla tipografia. La notizia si era diffusa per le strade di Dudley e, ogni sera, finché non aveva trovato un nuovo impiego, qualcuno aveva lasciato una busta o una scatola piena di cibo e generi di prima necessità davanti alla loro porta. Senza rivelare la sua identità, senza metterli nella condizione di dover ringraziare o sdebitarsi in qualche modo. Stacey andava fiera delle sue origini nigeriane sebbene non avesse mai messo piede fuori dall’Inghilterra; allo stesso modo, era orgogliosa di essere una cittadina britannica.

Fece un respiro profondo per placare l’ansia che tutti quei cambiamenti, avvenuti contemporaneamente nella sua vita, le stavano provocando. Solo una settimana dopo aver ricevuto le chiavi del nuovo appartamento aveva superato l’esame per diventare “agente investigativa” e adesso aveva l’impressione di vivere la vita di un’altra persona. Appena un mese prima, al termine del suo turno di otto ore, tornava a casa e trovava un pasto caldo cucinato da sua madre.

Aveva desiderato quell’indipendenza. Essendo una donna all’inizio della propria carriera aveva capito che non poteva affidarsi totalmente al sostegno e alla protezione dei suoi genitori.

Aveva immaginato un futuro fatto di libertà e di euforia. Serate in compagnia degli amici, a bere vino e tentare esperimenti culinari.

Solo una volta che si era trasferita si era accorta di non avere molti amici, in realtà. Aveva dei colleghi con cui aveva lavorato negli ultimi anni nella polizia, ma da quando aveva superato l’esame per diventare agente investigativa si erano fatti improvvisamente distanti.

Nel silenzio del suo appartamento si era resa conto della quantità di ore che passava al computer, persa nel mondo immaginario di World of Warcraft.

A casa, con i suoi genitori sempre affaccendati, le era sembrata una via di fuga, una distrazione dal lavoro, mentre adesso che si ritrovava da sola nel suo appartamento, con l’unica compagnia del computer, aveva capito che la sua vita sociale si limitava alla realtà virtuale.

Scacciò quel pensiero. Meglio rimandare a un altro momento.

Quel giorno c’erano questioni più urgenti di cui occuparsi; per esempio, se fosse vestita adeguatamente per il suo primo giorno di lavoro. Nuovo ruolo, nuova squadra, nuovo capo. E chissà quali altre sorprese ci sarebbero state.

Alla fine si era decisa per un paio di pantaloni crema, delle ballerine con due centimetri di tacco e una semplice camicia bianca a maniche lunghe. Ne aveva viste di tutti i colori al dipartimento di Investigazione criminale: tailleur, completi spezzati, jeans, pantaloni sportivi. Lei non aveva mai indossato un tailleur in tutta la sua vita e non aveva intenzione di iniziare in quel momento, per quanto le parole di suo padre fossero impresse a fuoco nella sua memoria.

«Lo so, papà», sussurrò al suo riflesso nello specchio. «La prima impressione è quella che conta».

E lei desiderava con tutte le sue forze fare una buona impressione, confessò a sé stessa.

Per quanto negli anni avesse tentato di cambiare, era una di quelle persone che vogliono piacere a tutti. Voleva che la gente la apprezzasse e riconoscesse le sue capacità, era un tratto che faceva parte del suo carattere da sempre, da quando la piccola Courtney Jackson si era rifiutata di sedersi accanto a lei il primo giorno di scuola.

All’epoca, si era chiesta cosa potesse fare per metterla a suo agio. Le aveva rivolto sorrisi a trentadue denti. Aveva spostato la sedia a sinistra in modo da lasciarle più spazio. Le aveva lasciato scegliere per prima il giocattolo dalla scatola apposita, e in un modo o nell’altro, da allora non aveva mai smesso di compiacere gli altri.

Lanciò un’ultima occhiata allo specchio prima di afferrare la borsa e si sforzò di resistere alla voglia di mandare una foto al nuovo telefono che aveva comprato alla mamma, per avere un riscontro da parte sua.

Gli agenti investigativi di ventidue anni non facevano certe cose.

Fece un altro respiro profondo e chiuse a chiave la porta dell’appartamento in cui ancora non si sentiva a casa.

Allentò la tensione che avvertiva alla mascella facendo un bel sorriso.

La gente si affezionava in fretta alle persone sorridenti.