Capitolo 10

«Allora», esclamò Kim quando tornarono nella sala operativa. «L’ispettore capo Woodward è stato informato, quindi diamoci da fare e cerchiamo di identificare il nostro uomo».

Era la priorità in ogni caso che seguiva. Essendo una figlia del sistema assistenziale inglese, Kim sapeva cosa significava sentirsi chiamare “bambina”, “piccola”, “ehi” o in qualsiasi altro modo che non comportasse lo sforzo di ricordare il suo nome, e non lo dimenticava mai. Se non hai un nome sei irrilevante, e la loro vittima non lo era.

Il sopralluogo sulla scena del delitto le aveva portato via mezza mattinata, ma in compenso aveva scoperto molte cose sui membri della sua piccola squadra.

«E grazie a chi ha portato il caffè», disse, vedendo i bicchieri di carta schierati.

Bryant replicò alzando la mano.

«Bene, Stacey, so che non sarà facile, ma voglio che inizi a cercare qualunque possibile telecamera a circuito chiuso della zona, guarda se trovi qualche ripresa. Conosciamo l’ora approssimativa della morte, quindi procedi a ritroso. E non dimenticare che ci sono un paio di strade diverse che portano a quel luogo, perciò non trascurare residenze private, stazioni di servizio e edifici industriali».

Stacey annuì e si volse verso il computer.

«Dawson, voglio che ti metta in contatto con l’ufficio persone scomparse per capire se qualcuno corrisponde alla descrizione della vittima…».

«Non è un po’ presto, capo?», chiese lui.

Ci aveva pensato anche lei. Si trattava di un uomo adulto, ucciso meno di dodici ore prima, ma talvolta il destino poteva riservare delle sorprese.

«Sì, ma fallo comunque».

Dopo un attimo di esitazione, lui annuì.

«Bryant, fai qualche ricerca sul nostro testimone e controlla che non abbia qualche scheletro nell’armadio».

«Subito, capo».

Prese il suo caffè e si ritirò nella Conca, dove accese il computer nonostante avesse la netta sensazione che non le sarebbe stato d’aiuto per trovare le risposte che andava cercando. Aveva già visto quel tatuaggio: forse si trattava di una coincidenza o forse significava qualcosa. Alcuni soggetti erano particolarmente comuni.

Ne aveva visti di tutti i tipi sulle persone che negli anni aveva mandato in prigione. Il numero 1488, per esempio, era diffuso fra i suprematisti bianchi: le prime due cifre rappresentavano le Quattordici parole dello slogan coniato dal leader neonazista David Lane, mentre i due otto stavano per l’ottava lettera dell’alfabeto, che ripetuta dava HH, ossia “Heil Hitler”.

Sapeva che il disegno di una ragnatela faceva riferimento alla durata della condanna e che una lacrima spesso indicava che il suo portatore aveva commesso un omicidio, o un tentato omicidio se non era piena di inchiostro all’interno.

Aveva sentito che i rapper e altri personaggi del mondo dello spettacolo negli ultimi tempi avevano reso celebre la lacrima e sperava che nessuno di loro finisse in carcere, perché i novellini che sfoggiavano quel tatuaggio non erano accolti bene.

Sebbene non avesse mai avuto la tentazione di farsene uno, riusciva a comprendere che per alcuni rappresentassero un mezzo di espressione; c’erano le frasi sentimentali, c’erano i motti, ma la maggior parte esprimevano l’appartenenza a un gruppo, o a una gang, dentro o fuori dalla prigione.

Ogni gang, che lei sapesse, aveva il suo simbolo. I Crips ne avevano diversi; alcuni miravano a offendere la banda rivale, i Bloods. Persino gli Hells Angels avevano una loro sigla, ASSA, che significava“Angeli sempre, sempre angeli”.

Le gang, la rondine…

«Ah! Ci sono», esclamò, battendo le unghie sulla scrivania.

Afferrò la giacca che aveva appeso allo schienale della sedia meno di un quarto d’ora prima e tornò nella sala operativa.

«Bryant, lascia stare Jerry Walker per ora. Voglio che tu venga con me».

Si era ricordata dove aveva già visto quel tatuaggio.