Capitolo 114

Bryant esitò prima di bussare. Non sapeva se era opportuno, ma sentiva il bisogno di confrontarsi.

Era felice di avere la giornata libera. Non aveva dormito granché. Ogni volta che aveva provato a chiudere gli occhi, aveva risentito il tocco freddo del metallo sul collo. Solo riaprendoli il panico era svanito.

Quando si era infilato sotto le coperte alle quattro del mattino, Jenny aveva aperto gli occhi e gli aveva chiesto se andava tutto bene, ma lui non se l’era sentita di tenerla sveglia per raccontarle tutto. Gliene avrebbe parlato in seguito. Prima doveva occuparsi di un’altra questione.

Quando la porta si aprì, due dettagli catturarono immediatamente la sua attenzione. La sua espressione sorpresa e l’odore di bruciato che proveniva dall’interno.

«Scusa se mi presento a casa tua, capo, ma…».

«Va tutto bene?», domandò Kim, facendosi da parte per lasciarlo passare.

«Sì, vorrei solo scambiare due parole con te in privato».

«E non sei riuscito a farlo in quell’infinità di ore che abbiamo passato insieme in macchina questa settimana?».

Forse si era sbagliato, forse non sarebbe dovuto andare da lei, ma gli bastò un’occhiata per capire che non era arrabbiata. Ormai l’aveva vista così tante volte infuriata da accorgersene sin dai primi segni.

«Non ti ruberò molto tempo, ma cos’è questo odore?», le chiese, attraversando il soggiorno quasi vuoto per raggiungere la cucina. Lì, c’era un piccolo tavolo rotondo ricoperto di fogli di giornale e pezzi di un tubo di scappamento.

Kim sollevò il coperchio del bidone ai piedi del tavolo a penisola. «Scones».

Affacciandosi, Bryant vide un mucchio di piccoli dischi neri, schiacciati, che sembravano più adatti a un campo da hockey che alla colazione.

«Sei sicura?».

Kim si strinse nelle spalle. «Questa era l’intenzione».

«Non sei portata per i fornelli, eh, capo?»

«Odio cucinare», ribatté lei, prendendo la caffettiera. «E come cuoca faccio schifo».

Bryant annuì, lanciando un’altra occhiata dentro al bidone. «Ehm… e allora perché lo fai?», le chiese. Lui odiava falciare il prato, e quando poteva lo evitava. E gli scones non erano difficili da trovare nei negozi.

«Proprio perché faccio schifo. Un giorno imparerò».

Chissà perché, quella risposta non lo sorprese.

Kim aprì l’armadietto in alto. «Ho solo tazze, mi dispiace».

«La tazza va benissimo», rispose lui, chiedendosi come introdurre l’argomento. Respirò a fondo. «Senti, capo, ho bisogno…».

«Kim», disse lei.

«Sì, capo, è solo che…».

«Kim», ripeté.

Davanti allo sguardo contrariato di Bryant, Kim gli lanciò un’occhiata e gli porse la tazza di caffè. «Non sono in servizio. Sono a casa mia. Quindi sono Kim, non il capo».

Bryant non credeva che si sarebbe mai abituato a chiamarla per nome.

«Però azzardati a chiamarmi Kim in servizio e ti faccio trasferire».

Lui esitò.

«Dai, stavo scherzando».

Conosceva sin troppo bene la sua espressione arrabbiata; evidentemente, doveva ancora allenarsi per capire quando invece stava scherzando.

Si portò la tazza alla bocca. «È per quello che è successo ieri sera?».

Lui scosse il capo. «No, è per la promozione a detective ispettore».

«Non è mai troppo tardi», commentò lei, appoggiandosi al tavolo e incrociando le braccia.

Bryant apprezzò il gesto, ma il suo tono di voce era giustamente dubbioso. Ci aveva provato due volte e per due volte non aveva superato l’esame.

«Ma è proprio questo il punto, capo… scusa, Kim. Io non voglio quella promozione».

Lei aggrottò la fronte. «Spiegati meglio».

«Gli ultimi due ispettori con cui ho lavorato mi hanno convinto a iscrivermi e io li ho assecondati, anche se me ne vergogno. Ma la verità è che il mio lavoro mi piace. Mi piace essere parte di una squadra, ma non voglio dirigerla. Mi piace il mio lavoro e mi piace pensare di farlo bene. Non sono tagliato per fare il detective ispettore e mi sono stufato che nessuno lo capisca».

Il sergente era consapevole che i responsabili delle squadre avevano il dovere di incoraggiare i membri validi a salire di grado, a realizzare il loro potenziale, ma lui con il tempo aveva capito che stava benissimo dov’era. Era stanco di subire pressioni da parte di superiori che inseguivano le loro mire professionali. E voleva assicurarsi che lei lo comprendesse.

«Il fatto è che…».

«Non mi devi nessuna spiegazione», rispose Kim, alzando la mano. «In ogni caso, non so che destino avrà questa squadra. Ho un appuntamento con Woody lunedì mattina alle sette per discuterne».

Bryant sentì una stretta allo stomaco. Nonostante l’epilogo drammatico, la settimana era andata discretamente. Non gli sarebbe dispiaciuto ripetere l’esperienza, ma al momento voleva pensare solo a rilassarsi e a godersi il sollievo per essersi tolto quel peso.

Si guardò intorno, e lanciò un’occhiata nel salotto. Nemmeno una decorazione natalizia, né una fila di lucine, e mancavano solo sei giorni al grande evento.

«Vai da qualche parte per…?»

«Non festeggio il Natale. Lo odio. Sono di turno. Lo chiedo ogni anno».

Bryant non sapeva cosa dire. Non aveva mai conosciuto nessuno che in un modo o nell’altro non festeggiasse il Natale. Ripensò ai pochi dettagli che conosceva del suo passato e si chiese quali altri segreti nascondesse. Di una cosa era certo: Kim non era una persona che si confidava facilmente.

«Eh, la mia signora mi ammazzerebbe se lo chiedessi. Organizza tutto nei minimi particolari a partire dall’apertura dei regali alle otto di mattina fino al buffet di salumi la sera del 25. Sul frigo è appeso il programma dettagliato…».

«Stai scherzando?».

Lui sorrise. «Sì, probabilmente io sono peggio di lei. Ma non bevo, quindi, anche se non posso offrirmi volontario, se dovessero chiamarmi per un’emergenza, sarei pronto».

Quando incrociò il suo sguardo, Kim capì. Se fosse dovuta uscire e avesse avuto bisogno di un braccio destro, lui non si sarebbe tirato indietro.

Bevve un sorso di caffè. «E tua moglie lo sa che durante il giorno vai a trovare a casa altre donne?».

Lui alzò gli occhi al cielo. «Sì, mi ha detto lei di venire e mi ha anche suggerito alcune cose da non fare se voglio che il mio matrimonio duri ancora a lungo».

Kim scoppiò a ridere.

Era la prima volta che Bryant la sentiva ridere. E gli piacque.

«Guarda che non diventi un’abitudine, però, okay, Bryant?».

Lui scosse il capo. «Non credo, Kim».