Capitolo 38

La tenuta di Redland Hall sorgeva a circa tre chilometri da Stratford-upon-Avon.

«Ti ricordi che il sergente Greene ci ha detto di stare alla larga, vero?», domandò Bryant.

«Oh, andiamo, sarebbe da maleducati non andare a dare un’occhiata. Insomma, non ho detto che dobbiamo entrare. È praticamente sulla strada del ritorno».

«A dire la verità, no», ribatté Bryant, imboccando una laterale costeggiata da due filari di alberi. «Ignoravo proprio l’esistenza di questo palazzo».

«Ci credo, non è praticamente mai stato aperto al pubblico», spiegò Kim. «I precedenti proprietari l’hanno utilizzato per organizzare dei corsi e roba simile negli anni Novanta, per cercare di tirare su un po’ di soldi, ma non ha funzionato. Allora si sono trasferiti in un cottage a Evesham e hanno donato l’intera tenuta al National Trust, che l’ha in gestione da due anni ma non sa come sfruttarla».

Da quando erano usciti dalla stazione di polizia si era dedicata a raccogliere informazioni su Internet.

«Accidenti», esclamò Bryant, quando il palazzo si stagliò davanti a loro.

Le aveva tolto le parole di bocca. Era una dimora maestosa, imponente, che si sviluppava su tre piani.

Durante le sue ricerche, Kim aveva appreso che il palazzo risaliva al xiii secolo. Il vialetto conduceva a un piccolo ponte teso sul fossato, che sembrava più recente rispetto al resto.

Kim scese dall’auto e rimase a osservare l’edificio con un misto di stupore e tristezza.

Un tempo doveva essere stata una dimora principesca. Sulla facciata del blocco centrale, sovrastato da una torretta, si aprivano due file di finestre e il portale ad arco. Da esse partivano le due ali laterali. Tutti i vetri erano rotti.

I ladri avevano portato via le tegole lasciando scoperte le travi del tetto e tre strutture di mattoni che probabilmente erano servite da sostegno agli enormi comignoli. L’edera e il muschio crescevano indisturbati sulle pareti e si insinuavano nelle finestre.

«Che vergogna», esclamò Bryant. Kim avanzò di un passo. «Capo, pensavo che avessi detto…».

«Ci metto un minuto. Rimani qui, se vuoi», rispose lei, incamminandosi verso il ponticello.

A quanto aveva capito, il National Trust aveva provato a impedire l’accesso agli estranei svariate volte, ma puntualmente qualche malintenzionato aveva aperto una breccia nelle tavole di legno che sbarravano le aperture. Alla fine, si erano rassegnati ad appendere alcuni segnali di pericolo e a fissare alla facciata del palazzo dei cartelli con su scritto “vietato l’accesso”. Il perimetro della tenuta era delimitato da alberi, ma non era presente una recinzione né un muro: era impossibile proteggerla dalle intrusioni.

Imputò l’esitazione di Bryant al fatto che fosse impegnato a riflettere. Valutazione dinamica dei rischi. E non fu sorpresa di sentire, poco dopo, il rumore dei suoi passi alle spalle.

«Oddio, persino il portone hanno rubato», esclamò quando varcarono l’ingresso del palazzo ormai ridotto a un guscio vuoto. La luce entrava dalle aperture del tetto: in molti punti le travi erano state rimosse, o rubate oppure erano marcite e crollate. Il pavimento era cosparso di calcinacci e sassi, e anche le mattonelle erano state trafugate.

Kim era contenta che i vecchi proprietari non fossero vissuti abbastanza a lungo da vedere quello scempio.

Nell’atrio un tempo maestoso, dove il signore e la signora del palazzo avevano accolto gli ospiti e la servitù aveva preso in consegna cappotti e cappelli, si ergeva la scalinata che conduceva ai piani superiori.

Greene aveva detto che il cadavere era stato ritrovato proprio lì sotto.

Gli sciacalli dovevano aver sfondato le tavole di legno che chiudevano il sottoscala e così avevano trovato il corpo.

Kim si avvicinò.

«Adesso sarebbe molto utile una…». Si azzittì quando un fascio di luce illuminò la base della scala.

Proveniva dalla mano di Bryant.

«Una torcia!», disse, terminando la frase.

«Sì, un aggeggino niente male da tenere nello stivale».

Ah, quindi non aveva esitato perché era impegnato a riflettere: stava radunando l’attrezzatura necessaria per la spedizione.

Per qualche imperscrutabile ragione, le fece piacere.

«Un po’ più a sinistra», gli indicò.

«Ora a destra».

«Un po’ più giù».

«Cos’è, The Golden Shot?», esclamò Bryant.

«Cosa?»

«Un programma televisivo che a quanto pare andava in onda prima della tua nascita».

«Bryant, non capisco», disse lei, facendo un passo indietro. «Vieni a vedere».

Il collega prese il suo posto e iniziò a guardarsi intorno, mentre Kim si chiedeva se fosse quello lo stanzino descritto dal sergente Greene. Lo spazio che si apriva nel sottoscala era grande quanto un ripostiglio per le scope. Non arrivava a due metri quadrati. Le pareti, in effetti, erano sporche di sangue.

Anche se il caso non era di loro competenza, non poteva fare a meno di domandarsi perché Lester Jackson fosse stato assassinato proprio in quel luogo.