Capitolo 30

Quando Bryant accostò davanti a un’alta torre di Bilston, la tensione tra i due sembrava ormai allentata.

Per fortuna non era tipo da serbare rancore a lungo.

«Undicesimo piano», esclamò alzando gli occhi al cielo, una volta che furono scesi dall’auto.

La prima fonte relativa a Bilston risaliva al 985 d.C., quando si chiamava Bilsatena; successivamente il villaggio di Billestune fu censito nel Domesday Book. A poco più di tre chilometri da Wolverhampton in direzione sud-est, la zona circostante aveva rappresentato un importante bacino di estrazione del carbone e nel corso del XIX secolo il centro abitato si era popolato di case a schiera costruite per gli operai. Quegli edifici in seguito erano stati rimpiazzati da villette e condomini moderni, ed erano nate le zone residenziali di Stowlawn, Lunt e Bunker’s Hill, dove si trovavano in quel momento.

Quello era uno dei condomini più belli dei dintorni, Kim se ne ricordava. Era presente il citofono, ma non ce ne fu bisogno perché qualcuno aveva fermato il portone con una zeppa per lasciare libero accesso ai fattorini di un magazzino di arredamento.

«L’ascensore funziona!», esclamò Bryant quando vide uscire una giovane coppia che spingeva un passeggino.

Entrarono e il sergente premette il pulsante dell’undicesimo piano.

Annusò l’aria. «Ah, ho capito cosa manca. La puzza di urina».

Kim confermò con un sorriso. Sì, anche lei si era preparata al peggio, e invece l’unico odore nella cabina era la lieve scia di profumo lasciata dalla donna appena uscita.

L’ascensore si arrestò e seguirono le indicazioni per l’interno 11C, dove trovarono un altro citofono.

Bryant suonò e all’altro capo rispose una voce gracchiante. Bastò una parola per avvertirne il tono diffidente.

Bryant spiegò chi fossero e chiese se potessero fare due chiacchiere.

«Come avete fatto a entrare dal portone?», domandò la voce, senza decidersi ad aprire.

Kim si avvicinò al citofono e spiegò della ditta di mobili che stava facendo una consegna; lo fece soprattutto per avvertirla che c’era una presenza femminile.

Alla fine la donna si decise ad aprire. Doveva avere poco meno di venticinque anni, stimò Kim vedendola. Portava i capelli castani legati in una liscia coda di cavallo e un trucco leggero sul viso.

Si indicò i vestiti, la divisa verde del supermercato.

«Di che si tratta? Devo andare al lavoro».

«Possiamo entrare?».

La donna lanciò un’occhiata alle sue spalle, come se volesse controllare qualcosa. Si fece da parte e indicò una porta sulla sinistra. Entrarono in un soggiorno spazioso, illuminato da una serie di grandi finestre incorniciate da pesanti tende scure fermate ai lati. Nella stanza i mobili erano pochi e spaiati, e quasi tutti riportavano qualche ferita di guerra. Qui una macchia, là un graffio.

«Mi dispiace mettervi fretta ma…», esclamò, picchiettando il dito sull’orologio.

Kim si sedette sulla poltrona, che non era abbinata al divano a tre posti.

«Signorina Bywater, conosce…».

«Signora», la corresse la donna.

Kim si scusò per l’errore con un cenno del capo, e andò avanti.

«Signora Bywater, conosce un uomo di nome Luke Fenton?».

La giovane si sedette, pallida in volto.

«Ma come…? Dove? Insomma…».

Kim rimase in silenzio: preferiva non rivelare che l’unico collegamento a loro noto fra la vittima e la ragazza era un post pubblicato su Facebook.

«È suo parente?», domandò la detective.

La donna congiunse le mani in grembo. Piegava e distendeva le dita, e tutto il suo corpo era scosso dalla tensione. «Per favore, mi dica di cosa si tratta».

«Prima devo sapere se è suo parente», ripeté Kim, in tono gentile. Magari quella donna era la madre di suo figlio. Chiunque fosse, stava per subire un grosso shock. Detestava quell’aspetto del suo lavoro.

Lisa Bywater annuì. «Luke è mio fratello».

Merda, adesso lo detestava ancora di più. E conoscere il loro grado di parentela sarebbe stato utile prima di andare da lei.

«I vostri genitori?», chiese Kim.

«Morti», rispose, scuotendo il capo.

Lo detestava, lo odiava proprio.

«Signora Bywater, mi dispiace, ma abbiamo ragione di credere che suo fratello sia morto».

Il volto della donna rimase perfettamente immobile, come se quelle parole non avessero raggiunto le orecchie. A giudicare dalla sua espressione, sembrava ancora in attesa di apprendere il motivo della loro visita.

«Signora Bywater, purtroppo suo fratello è stato ucciso, è stato assassinato».

La donna iniziò a scuotere la testa. «No… no… vi sbagliate… non può essere vero…».

«Temo di sì», intervenne Bryant. «Non abbiamo dubbi».

Sbatté le palpebre ripetutamente, come se quel gesto potesse aiutarla a farselo entrare in testa.

Si nascose il viso fra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Il suo corpo iniziò a tremare.

Bryant si avvicinò e le posò affettuosamente una mano sulla spalla.

«C’è qualcuno che possiamo chiamare?».

Lei scrollò il capo.

Il sergente ritrasse il braccio, ma continuò a parlarle: «Ci dispiace molto per la sua perdita, signora Bywater, ma…».

«Scherza?», esclamò lei, alzando il viso arrossato ma asciutto. Non stava piangendo. I suoi occhi erano accesi e vivaci. «È la notizia più bella che abbia ricevuto da mesi!».