Capitolo 106
Quando si fermarono all’esterno della clinica, Kim sentì l’ansia che si allentava. Nel parcheggio c’era un’altra auto. Una Ford Mondeo che aveva visto alla casa d’accoglienza entrambe le volte in cui c’era stata. Ed entrambe le volte, Curt e Carl Wickes erano presenti.
Dawson ci aveva visto giusto.
Adesso aveva le prove. Finalmente poteva chiedere rinforzi senza perdere il posto o essere chiamata a rapporto nell’ufficio del suo superiore.
Scese dall’auto e il collega la seguì.
«Bryant, chiama la centrale», disse, avvicinandosi al veicolo.
Si guardò velocemente intorno. L’ultima abitazione che avevano incontrato si trovava a circa un chilometro di distanza. La clinica abbandonata era situata ai confini del Woodgate Valley Country Park: un’area di quasi duecento ettari un tempo coltivata e suddivisa fra tante piccole fattorie.
Consultando il sito internet, ormai defunto, e la vista satellitare di Google Maps, aveva capito che la struttura era suddivisa in due edifici distinti. Quello a est ospitava gli uffici amministrativi, la manutenzione e l’assistenza, mentre a ovest si trovavano gli ambulatori e una sala operatoria. L’atrio, dove un tempo c’era stata la reception, collegava i due tronchi.
Mentre Bryant comunicava la loro posizione, Kim si avvicinò al veicolo. Toccò il cofano. Era ancora caldo.
Grazie al cielo, forse non era troppo tardi.
Provò ad aprire, ma la portiera era chiusa.
Che razza di persona aveva l’accortezza di chiudere l’auto prima di accompagnare la sua vittima al patibolo?
Guardò dentro l’abitacolo buio, ma non vide niente.
Richiamò Bryant con un gesto e, mentre il collega continuava a parlare, mimò con la mano il gesto di premere un pulsante.
Lui estrasse la torcia dalla tasca e gliela passò.
Illuminò il finestrino del passeggero, ma scorse solamente spazzatura. Passò al sedile posteriore. Due dettagli catturarono la sua attenzione.
Sul tappetino era posata una borsa da medico e il sedile era macchiato di sangue.
Maledizione, il dottore era ferito ed era pronta a scommettere che avesse ricevuto un colpo alla nuca.
Lanciò un’occhiata ansiosa alla porta di vetro dell’atrio, che era stata evidentemente infranta.
Sapeva benissimo che entrare sarebbe stato avventato. Erano solo in due e avevano già chiesto rinforzi. L’addestramento e l’esperienza le dicevano che era meglio aspettare e, per il momento, assicurarsi che l’assassino non scappasse. Una volta arrivati gli agenti, avrebbero messo a punto un piano per circondare l’area e metterla in sicurezza. L’avrebbero fatto uscire allo scoperto. Senza rischi.
«Allora, capo, i rinforzi stanno arrivando. Dovrebbero essere qui fra otto-dieci minuti».
«Bleah, ma che diavolo…?», esclamò Kim, alzando un piede.
Un pezzo di mela appiccicato sotto la sua scarpa.
Una mela al giorno.
All’improvviso, le balenò davanti agli occhi l’immagine di un uomo innocente che veniva torturato fra indicibili sofferenze. I rinforzi non sarebbero arrivati in tempo. Se per otto lunghissimi minuti avesse aspettato pazientemente i colleghi, il dottor Lambert sarebbe morto. Forse avrebbero catturato l’assassino, ma un’altra vita sarebbe andata perduta.
E, in questo caso, si sarebbe trattato di un innocente.
Si rivolse al collega. «Okay, Bryant, io entro».