Capitolo 116
Kim si diresse verso le scale che portavano ai piani alti della stazione di polizia, ancora sorpresa che Bryant fosse arrivato prima di lei. Aveva borbottato qualcosa a proposito della sua pignoleria, e le aveva annunciato di essere pronto e impaziente di ripartire. L’aveva lasciato a preparare il caffè in vista della lunga giornata che li attendeva.
Sapeva di cosa avrebbe discusso con l’ispettore capo e dopo un lungo fine settimana di riflessione era sicura delle risposte che gli avrebbe dato.
Quasi sicura.
Il caso era chiuso, per loro. L’interrogatorio aveva portato a una confessione, con tanto di date, nomi e luoghi. La colpevolezza di Nigel Hawkins, per tutti gli omicidi, era fuori discussione.
Kim si era chiesta se l’assassino volesse essere catturato. I continui indizi che aveva lasciato, legati ai significati oscuri delle filastrocche, erano diventati la sua firma. A certi killer piaceva lasciare un timbro personale, che rispondeva a un’ossessione o a un impulso. Alcuni mettevano i cadaveri in posa, incidevano un messaggio nella carne, vi inserivano corpi estranei oppure si portavano via qualche “souvenir” che li avrebbe aiutati a rivivere il delitto. Certi gesti riflettevano i tratti della loro personalità e non avevano niente a che fare con la necessità di uccidere. Nigel non era stato costretto a lasciare indizi per compiere il suo lavoro. Aveva scelto di farlo per lanciare un messaggio.
Durante il fine settimana Butcher Bill era stato rilasciato ed era tornato davanti al suo negozio preferito. Da quello che aveva sentito, non era stato troppo contento di uscire. Forse, entro breve avrebbe confessato qualche altro reato per guadagnarsi un letto e dei pasti caldi, soprattutto nel periodo delle feste.
Alla fine era riuscita a parlare con Carl Wickes, che si era messo a tremare non appena aveva varcato la soglia della stanza degli interrogatori, prima ancora che gli facesse la prima domanda. Quando aveva pronunciato il nome di Wendy Lockwood per poco non era svenuto per il sollievo e aveva ammesso di avere avuto rapporti sessuali con più di un’ospite della struttura.
La sua reazione iniziale, però, aveva fatto scattare un campanello d’allarme, come se fosse sul punto di confessare un reato minore. Si era chiesta se fosse coinvolto negli omicidi insieme a Nigel o se ne fosse stato per lo meno al corrente.
Una volta messo sotto torchio, aveva rivelato che lui e Marianne erano complici in un’altra attività illegale, da più di due anni. Ricatti.
Il giovane si era sfogato e ne era scaturita una confessione di diciassette pagine a cui Kim non era preparata. A mano a mano che snocciolava nomi, date e modalità, la paura che leggeva nei suoi occhi era andata diminuendo. Solo la settimana prima gli avevano ordinato di recarsi da un uomo, un certo Derek Hodge, armato di fotografie che lo ritraevano nudo in una stanza d’albergo dopo avere avuto un rapporto sessuale con Marianne, al fine di estorcergli fondi per le strutture. Confermò che Marianne gli aveva consegnato una seconda busta, che non aveva nemmeno aperto. Preoccupato dalla presenza della polizia nella casa d’accoglienza, aveva strappato la lettera ed era andato in città a ubriacarsi prima di parlare con Marianne e dirle che non aveva intenzione di continuare.
Sulla base della confessione di Carl era stata sentita anche la signorina Forbes, la quale, com’era prevedibile, aveva negato tutto, nascondendosi dietro un avvocato dalla parcella vertiginosa.
Per Kim fu un duro colpo. Le sue strutture negli anni avevano aiutato centinaia, forse migliaia di donne a superare un passato di abusi fisici e psicologici, e la passione con cui Marianne si era dedicata a loro era encomiabile.
Il caso era già stato trasferito a un’altra squadra, che avrebbe verificato ogni singola affermazione di Carl e avrebbe provveduto a presentare le accuse, un processo in cui Kim credeva molto. Certo, non poteva evitare di chiedersi cosa sarebbe successo alle case di accoglienza, senza Marianne. Non c’era una squadra di soci o di responsabili di gestione ad attendere dietro le quinte, né un vicedirettore che potesse prendere le redini della situazione. Marianne Forbes era sola alla guida e Kim temeva per la sorte che sarebbe toccata a quelle donne vulnerabili in sua assenza.
Il dottor Lambert era ancora in ospedale ed era già stato sottoposto a due interventi per tentare di arginare il danno subìto. Era presto per dire quali conseguenze avrebbe avuto, ma era vivo e questo era l’importante.
Kim aveva fatto visita alla signora Roberts per informarla degli sviluppi della vicenda e, sebbene non avesse mai incontrato Nigel o Hayley, fu felice per Mia che tutto fosse finito. Kim apprese con piacere che la famiglia aveva iniziato l’iter per l’adozione. Kim sperava che andasse a buon fine, per il bene della bambina. La sua mamma affidataria le era profondamente affezionata.
Lisa Bywater aveva reagito alla notizia con distacco e con una osservazione che non stupì Kim: non poteva trattenersi a lungo perché doveva andare al lavoro.
Kim sperava che adesso, con la fine di quella storia, potesse cominciare un percorso di guarigione, o che almeno le riconoscessero i meriti del suo lavoro di cassiera.
«Bene, iniziamo parlando del caso?», le chiese l’ispettore capo.
«Abbiamo acciuffato il cattivo che ha ammazzato sei persone», rispose.
«Tutto qui?»
«Abbiamo acciuffato il cattivo, anche se nessuno credeva che avesse ammazzato sei persone».
Woody la guardò da sopra le lenti degli occhiali. «Ho visto il filmato dell’interrogatorio. Siete stati bravi a strappargli la confessione».
Lei scrollò le spalle. «Non proprio. Desiderava parlare. Credo sia convinto che, quanto più racconta, tanto più noi saremo comprensivi, così a breve potrà tornare alla sua vita di sempre. Non si vede dietro le sbarre, questa è la verità». Fece una pausa. «L’ha visto tutto?».
Lui scosse il capo. «Solo la confessione. I primi venti minuti, credo».
«Io e Bryant siamo rimasti in quella stanza per un’ora. Quando ha iniziato non riusciva più a fermarsi. Una storia terribile, signore. Sua madre è morta quando aveva cinque anni e mezzo, e gli abusi sono iniziati circa sei mesi dopo».
Kim non poté fare a meno di provare pena per quel bambino di sei anni che aveva appena perso la mamma e aveva dovuto subire violenze inaudite da parte dell’unica persona che gli restava al mondo, colui che avrebbe dovuto proteggerlo.
«Ogni sera, prima di abusare di lui, suo padre gli leggeva lo stesso libro di filastrocche. Nigel ha iniziato a odiarle, perché sapeva cosa sarebbe successo dopo. Per lui quelle poesiole non erano affatto innocenti, ma cupe e spaventose».
«E così, da grande, ha puntato un coltello alla gola del tuo collega», concluse Woody, riportandola al presente.
Per Kim, il bambino e l’uomo erano due persone distinte. L’adulto aveva ucciso sei persone a sangue freddo, convincendosi che stava fornendo un servizio alla comunità. Il bambino, invece, era ancora terrorizzato e tentava di nascondersi sotto le coperte.
Non era necessario che Woody le ricordasse quel che aveva fatto. Aveva ancora quella scena davanti agli occhi. Era colpa sua se Bryant si era ritrovato in quella posizione. Era stata lei a decidere di entrare nell’edificio, e il sergente l’aveva seguita.
«È grande e grosso», disse Woody, come se le avesse letto nel pensiero. «E anche tu sei adulta. Non ti do la colpa di ciò che è successo a Bryant, tuttavia penso che la tua decisione di entrare nella clinica sia stata quanto meno imprudente».
«Quell’uomo stava morendo, signore», fu la sua risposta.
L’ispettore capo le diede ragione.
«Bene, il resto lo sai già, credo. Avrai saputo del dipartimento di Investigazione criminale di Wolverhampton».
Lei annuì. Visto che la squadra non era riuscita a capire che Butcher Bill non era il colpevole ed era stata propensa ad accettare una confessione priva di riscontri, era stata sciolta. E quelle persone dovevano pur andare da qualche parte.
«Alcuni buoni elementi sono tornati sulla piazza», chiarì l’ispettore capo.
Kim lo sapeva, aveva lavorato almeno con tre di loro.
«È il momento di scegliere».
Kim passò mentalmente in rassegna i pezzi migliori.
Spencer Adkins era un sergente poco più che quarantenne. Vantava il numero di arresti più alto del distretto. Era celibe, diligente e pressoché autonomo. Era il primo ad arrivare al mattino e l’ultimo ad andarsene la sera, e aveva sempre una parola gentile per tutti.
Rory Mason, un altro sergente, aveva circa venticinque anni. Era ambizioso e determinato, ma sul lavoro era molto serio. Rispondeva bene ai superiori, era rispettoso e lavorava sodo.
Lisette Wilson si era laureata a Oxford, aveva poco più di trent’anni e aveva un cervello in grado di analizzare e processare dati anche meglio di un computer. Era sposata e aveva un bambino. Sebbene rimanesse prevalentemente in ufficio, tra le conoscenze di Kim era la persona che aveva risolto più casi in assoluto.
Dopodiché ripensò alla squadra che si era trovata davanti all’inizio della settimana. L’agente investigativo Stacey Wood, inesperta, nervosa, insicura cronica. Si era lasciata impressionare dalla scena del delitto. Eppure aveva sopportato il collega sfaccendato senza lamentarsi. Era rimasta alla scrivania ogni giorno, fino alla fine del turno, e aveva contribuito con passione e impegno alle indagini. Aveva compensato la sua mancanza di esperienza con l’entusiasmo.
Il sergente Dawson, la cui arroganza sfiorava l’impertinenza, era sarcastico, indisciplinato e talvolta insopportabile. Aveva tentato di metterla alla prova a ogni occasione durante la settimana. Evidentemente stava attraversando una crisi familiare, ma nonostante questo aveva avuto i suoi lampi di genio. Si era incaponito nel voler trovare un filo conduttore tra gli indizi lasciati sulle scene del delitto e alla fine aveva elaborato la teoria delle filastrocche.
Kim si era pentita di non avergli dato ascolto. L’aveva giudicato in modo troppo sommario; da quella riflessione, scaturì la promessa di non ripetere quell’errore con gli altri membri della squadra. Senza Dawson non avrebbero mai trovato il dottor Lambert in tempo, lo sapeva bene.
E, infine, il sergente Bryant. Era rimasto al suo fianco per tutta la settimana. Non era un tipo ambizioso, e forse non lo si poteva definire una persona dinamica. Era affidabile, saggio e giusto, mai prepotente. Non era permaloso, e questo non poteva che deporre in suo favore. Per lui la settimana si era conclusa con un coltello alla gola, e non se ne era lamentato.
Alla sua squadra mancavano l’esperienza e le buone maniere; guardando ai numeri, non si poteva neppure paragonare ai colleghi che stavano cercando una sistemazione.
Fissò Woody negli occhi, pronta a rispondere alla sua domanda.
«Allora dimmi, Stone. Chi vuoi tenere e chi vuoi lasciare?».
Kim prese fiato, poi annunciò la sua decisione: «Signore, voglio tenerli tutti».