Capitolo 51

Quando Kim voleva andare in un posto, non si faceva condizionare dall’esistenza degli orari di apertura; fu così che, approfittando del favore delle tenebre, scavalcò il cancello d’ingresso del cimitero di Powke Lane.

Che c’era di strano ad andare a trovare i propri defunti alle nove di sera? Be’, per lei niente, visto che non finiva mai di lavorare prima di quell’ora.

Ma non lo faceva sempre. Ogni tanto andava a fare visita alla tomba di Mikey anche quando il cancello era aperto. L’unico problema, in quei casi, era la gente che affollava il cimitero; talvolta a Kim piaceva parlare con suo fratello in privato.

Imboccò la stradina in salita che portava alla parte alta del camposanto, passando tra le lapidi cariche di ghirlande, fiori, renne e pupazzi di neve. Molti di quei doni erano frutto del senso di colpa: i parenti si scusavano in anticipo per la baldoria delle feste che stavano per cominciare. La tomba di Mikey era spoglia. A lei, il Natale non faceva alcun effetto.

Si fermò accanto alla panchina. Non aveva bisogno dei lampioni per trovare la sua tomba. Una lapide di marmo nero che aveva comprato con i soldi del suo sedicesimo compleanno per sostituire quella provvisoria, rimasta lì per dieci anni.

L’iscrizione era semplice. Il suo nome e gli anni di nascita e di morte. Sei brevi anni racchiusi in un freddo trattino privo di vita.

A distanza di tempo, non si era ancora spenta la rabbia che provava nei confronti della donna che aveva causato tutto questo. La madre, Patricia Stone, che adesso era rinchiusa a Grantley Care, una struttura di detenzione per criminali psichiatrici. Tentò di non pensare a lei, ma ogni visita a Mikey era inestricabilmente legata a quel groviglio di rabbia.

Il primo ricordo di Kim era l’immagine di sua madre che avanzava verso di loro con un coltello per il pane stretto nella mano.

Schizofrenia paranoide. Si era convinta che Mikey, il suo stesso figlio, fosse il demonio.

Kim non ricordava molto di quei primi sei anni, all’infuori dei ripetuti tentativi della madre di uccidere il gemello e dei suoi sforzi per proteggerlo. Kim si era sempre sentita la sorella maggiore, nonostante fossero nati insieme, e il suo bisogno istintivo di difenderlo ne era una conferma.

Alla fine, però, aveva vinto lei. In una torrida giornata estiva, li aveva ammanettati al termosifone. Nonostante le loro grida, nessuno li aveva sentiti.

Per i primi giorni avevano razionato una manciata di biscotti alla crema e mezza bottiglia di Coca-Cola che Kim aveva recuperato da sotto il letto con il piede, ma alla fine, sporco, denutrito e disidratato, il suo gemello era morto fra le sue braccia.

Era rimasta sdraiata al suo fianco, a malapena cosciente, per due giorni, prima che qualcuno andasse in loro aiuto. I poliziotti avevano sfondato la porta.

Delle due settimane successive all’evento, che aveva trascorso in ospedale a lottare fra la vita e la morte, non ricordava molto. Quando fu dimessa, la stampa ormai aveva perso interesse per la sua storia. Non aveva mai letto la relazione, né un ritaglio di giornale che parlasse del suo caso. Non ne aveva bisogno: lei c’era stata. Aveva persino sentito che un giornalista senza scrupoli aveva autopubblicato un libro, cercando di trarre un guadagno da quella tragica vicenda. Ignara di tutto quel clamore, l’avevano prelevata dall’ospedale e depositata a Fairview Hall, insieme a un sacco della spazzatura mezzo vuoto che conteneva tutti i suoi averi.

E poi era iniziata la sequela di famiglie affidatarie, ognuna delle quali l’aveva segnata, a modo suo. Allo stesso ritmo si erano succeduti gli psichiatri, gli psicologi e i counselor che avevano cercato invano di fare breccia nel suo guscio e tirare fuori quello che conteneva, come si fa con un uovo. Solo uno era stato diverso dagli altri; un medico di mezza età di nome Ted, che non aveva pungolato il suo silenzio e l’aveva lasciata seduta tranquilla a guardare i pesci nel laghetto del suo giardino. Kim non parlava durante le sedute, ma ogni volta che usciva dalla porta del suo studio si sentiva più tranquilla. Con i suoi modi calmi e discreti aveva provato a farla sfogare, ma lei aveva resistito a ogni suo tentativo, preferendo costruire delle scatole nella sua mente in cui chiudere tutti i brutti ricordi del passato. Non le apriva mai, aveva paura di come avrebbe reagito se fossero tornati a galla.

Anche quando faceva visita a suo fratello, cercava di rammentare solo il suo sorriso quando si imbatteva in qualcosa, fosse anche un oggetto di poco conto, che a lui sembrava un tesoro; oppure la sua risata quando gli faceva il solletico sotto i piedi. Solo quei ricordi potevano uscire dalla scatola.

Erano momenti preziosi, espressione di un legame che neppure la morte poteva spezzare.

Mikey era la sua metà e lo sarebbe sempre stata; e ogni volta che lei avrebbe sentito la necessità di parlare, sarebbe andata da lui.

Si abbassò e si sedette sulla lapide.

«Sai, Mikey, ho una nuova squadra…».