Capitolo 7

Kim osservò la disposizione della sala operativa dalla Conca con le pareti in vetro nell’angolo destro della stanza. Era il suo ufficio: pensato chiaramente per qualcuno che amava osservare la propria squadra da dietro una barriera.

Dietro il vetro c’erano quattro scrivanie disposte a due a due, frontalmente, separate da un corridoio che andava dalla porta a una serie di armadietti su cui erano sistemati la stampante e un bollitore dall’aspetto lurido. Avrebbe preferito piuttosto bere da una pozzanghera fangosa. E considerato il quantitativo di caffè che le serviva per superare la giornata, quella situazione sarebbe stata risolta quanto prima.

Rivolse i pensieri all’arrivo imminente della squadra. Si chiese da chi fosse composta, e da dove arrivassero i colleghi. C’erano soggetti difficili? Le avevano rifilato i soli ingranaggi inceppati di squadre ben oliate? Forse l’ispettore capo Woodward stava riunendo tutte le mele marce nella stessa cesta?

Una figura comparve sulla soglia, risparmiandole ulteriori congetture.

L’uomo era alto circa un metro e ottanta e indossava un completo scuro, una cravatta celeste e un soprabito beige.

Quando uscì dalla Conca per andargli incontro, si accorse che le ricordava qualcuno, sebbene non riuscisse a capire chi.

«Sergente Bryant», disse l’uomo, porgendole la mano.

Lei la strinse.

«E ho portato il caffè, signora», aggiunse compiaciuto, nonostante fosse evidente.

«Buona mossa il caffè, ma con quel “signora” hai perso punti», replicò Kim, sollevando il coperchio di uno dei bicchieri di carta.

«Prendo nota. I caffè sono macchiati», spiegò guardandosi intorno. «Non sapevo in quanti saremmo stati…».

«Altri due, mi hanno detto», disse lei prendendo il bicchiere. Aveva azzeccato anche il numero. «E “capo” andrà benissimo», chiarì.

Un silenzio imbarazzato calò su di loro, e Kim si ricordò ciò che le aveva detto l’ispettore capo a proposito di fare conoscenza con la sua squadra. Peccato che non avesse alcuna curiosità da soddisfare. Solo il tempo avrebbe chiarito se il sergente sapeva fare il suo mestiere.

Sarebbe stata una giornata infinita.

Le fu risparmiata la fatica di pensare a una domanda appropriata da un altro volto sconosciuto che apparve sulla soglia.

«Salve, è questo il dipartimento di Investigazione criminale?», chiese la donna di colore con la borsa a tracolla.

Kim annuì, mentre la giovane varcava la soglia con un largo sorriso e la mano tesa.

«Sono Stacey Wood, agente… anzi, agente investigativa. Mi hanno assegnato a questa squadra».

Kim si presentò e Bryant si precipitò a stringerle la mano e dirle il suo nome.

Lei parve rincuorata dalla presenza e dall’atteggiamento accogliente di lui. Kim capì che doveva aver ricevuto la qualifica di agente investigativa da poco, visto che stava per presentarsi con il vecchio grado.

«Bene, sceglietevi la scrivania, ragazzi», esclamò, bevendo un sorso di caffè.

Bryant appese il soprabito all’attaccapanni e si sistemò al tavolo più vicino all’ufficio del capo, dandole le spalle.

Stacey posò la borsa e scelse la scrivania dal lato opposto del corridoio; entrambe le sedie erano rivolte verso la porta.

Kim si domandò se ci fosse una logica nella decisione dell’ispettore capo Woodward di assegnarle due elementi ai vertici opposti della scala gerarchica. Con la sua solita fortuna, avrebbe scoperto che l’una non sapeva fare niente e l’altro aveva solo voglia di girarsi i pollici in attesa della pensione.

Si sorprese a sperare che almeno l’ultimo membro della squadra risollevasse la situazione. Ed ecco un altro volto affacciarsi alla porta.

A Kim prese un colpo. Dato che non toccava mai una goccia d’alcol riusciva a sentirne il tanfo anche da lontano, e in questo caso non c’entrava certo il dopobarba.

Prima che aprisse bocca, gli occhi dell’uomo vagarono per la stanza e si fermarono su di lei. La squadrò brevemente dalla testa ai piedi, e lei fece lo stesso.

La prima cosa che notò furono i pantaloni blu stropicciati sulle ginocchia e tra le gambe. Sulla camicia celeste, a destra della cravatta rosa a pois, si scorgeva una macchia; il nodo si manteneva a rispettosa distanza dal colletto aperto. Sempre che si fosse fatto la barba, doveva essersi raso al buio. Solo i capelli scuri sembravano adeguati all’ambiente lavorativo.

Kim capì che quella era la versione “domenica sera”, e non “lunedì mattina”.

Lui si portò la mano destra alla tempia scimmiottando il saluto militare e sorrise.

«Sergente Dawson a rapporto, signora».

Con la coda dell’occhio, la detective intravide la smorfia sul volto di Bryant e la sua testa che si scuoteva, mentre l’agente non sapeva dove guardare.

Un tipo sicuro di sé. Era una caratteristica che apprezzava nelle persone, ammesso che fosse accompagnata da capacità e risultati, e non precipitasse nell’arroganza.

«Non chiamarmi signora, grazie», rispose in tono calmo. «Scegli una scrivania».

Ovviamente scelse la prima che gli capitò a tiro, quella più vicina alla porta, di fronte al tavolo di Stacey.

Kim prese un altro sorso di caffè mentre gli altri si presentavano a vicenda.

Notò che il giovane sergente estrasse un bicchiere dal vassoio di carta senza chiedere il permesso né ringraziare. L’agente invece non si era ancora servita.

«Bene», esclamò, sedendo sul bordo della scrivania libera, «al momento, sembra che non abbiamo…».

Tacque quando udì lo squillo del telefono.

«Rispondo io», disse Bryant sollevando la cornetta.

Rimase in ascolto, con le sopracciglia inarcate, e alla fine ringraziò e riattaccò.

«A quanto pare abbiamo un caso. Hanno trovato un cadavere sul versante occidentale delle Clent Hills».

Kim si alzò, osservando le loro espressioni. Quella di Bryant, trepidante e vigile. Quella di Stacey, impaurita. Quella di Dawson, quasi con la bava alla bocca.

«Chi ci va?», domandò Bryant.

«Be’, dato che conosco a malapena i vostri nomi e non ho la più pallida idea dei vostri punti forti e deboli, credo che ci andremo tutti».

Bryant afferrò la cornetta.

«Chiamo e chiedo che ci mandino un’auto di pattuglia?»

«Nessuno di voi ha la macchina?», domandò Kim guardandosi intorno. Le auto di pattuglia avevano di meglio da fare che portare a spasso le squadre investigative.

Stacey scosse il capo.

Dawson fece una faccia inorridita.

«Forse un’Opel Astra, è meglio di niente?», propose Bryant.

Non era certo un bolide che li avrebbe portati a destinazione in tempo record, ma a differenza del suo mezzo di trasporto aveva quattro ruote e un tetto.

«Vai a scaldare il motore», disse.

Bryant andò a prendere il soprabito e si avviò, seguito da Stacey.

Kim si fermò sulla soglia, impedendo al sergente Dawson di uscire.

«Tu no», esclamò, stroncando l’entusiasmo che gli illuminava gli occhi. «Vai a casa e sistemati in modo consono al lavoro. Ci vediamo là».

Mentre usciva dall’ufficio, non poté fare a meno di chiedersi se non si fosse appena fatta il suo primo nemico. In quel caso, aveva battuto un nuovo record.

Persino per i suoi standard.