Capitolo ventinovesimo
“Ne sono contento, — dissi, calcolando tra me e me, mentre camminavo in Lione, dato che la diligenza era gettata alla rinfusa insieme col mio bagaglio su un carro che si moveva lentamente davanti a me, — sono proprio contento, — dissi, — che si sia sfasciata; perché ora potrò andare direttamente ad Avignone per via d’acqua, il che mi porterà più oltre di centoventi miglia nel mio viaggio e non mi costerà sette lire; e di là, — continuai, proseguendo nel mio calcolo, — potrò noleggiare un paio di muli o di asini, se così mi piace (tanto nessuno mi conosce), e attraversare le pianure della Linguadoca per quasi nulla. Mi verrà nella borsa un guadagno netto di quattrocento lire da questa disavventura; e poi il piacere! Varrà... varrà di per sé il doppio dei quattrini. A quale velocità, — continuai, battendo le mani, — volerò per il rapido Rodano, col Vivarese alla mia destra e il Delfinato alla mia sinistra, intravvedendo appena le vecchie città di Vienne, Valence e Vivières. Quale fiamma ridesterà nella lampada del mio cuore lo staccare un grappolo rosseggiante mentre passerò rapido a lambire i colli dell’Ermitage e della Côte-Rôtie! E quale fresca primavera nel sangue il vedere sulle sponde avanzare e ritirarsi i castelli dei romanzi cavallereschi, dai quali cortesi cavalieri anticamente salvavano gli angustiati, e lo scorgere con la vertigine le rocce, le montagne, le cateratte e tutto l’anelito della natura nei suoi compiti immani.”
Mentre procedevo così fantasticando, mi parve che la diligenza, che nei suoi rottami appariva dapprima alquanto maestosa, andasse a poco a poco sempre più diminuendo nelle sue dimensioni: la freschezza della vernice era scomparsa, la lucentezza delle dorature perduta, e al mio sguardo essa tutta appariva così povera cosa, così misera! così disprezzabile! e, in una parola, a tal punto peggiore dello stesso calesse della badessa d’Andoüillets, che m’accingevo ad aprire la bocca per mandarla al diavolo, quando un impudente e adescatore appaltatore di vetture, piantandosi prontamente in mezzo alla strada, domandò se Monsieur voleva far riparare la sua diligenza.
«No, no, — dissi, scotendo lateralmente la testa.
— Monsieur preferisce forse venderla? — soggiunse l’appaltatore.
— Con tutto il cuore, — dissi. — Le parti metalliche valgono quaranta lire, i vetri altre quaranta, e il cuoio potete prenderlo per sostentarvene.»
“In quale miniera di ricchezza, — mi dissi, mentre egli mi contava il denaro, — m’ha portato questa diligenza? E questo è il mio consueto sistema di contabilità, per lo meno nei disastri della vita: ricavarne un penny da ognuno d’essi quando mi capitano...”
Su, mia cara Jenny, racconta al mondo per me come mi comportai una volta in uno di questi, tra i più umilianti nel suo genere che potesse capitarmi come uomo, orgoglioso come dovrebbe essere della propria virilità.
«Basta, — dicesti, accostandoti a me, mentre stavo li impalato con le giarrettiere in mano a riflettere su ciò che non era accaduto, — basta, Tristram, io sono soddisfatta, — dicesti, bisbigliandomi queste parole all’orecchio: **** ** **** *** ******; **** ** **.»
Chiunque altro sarebbe sprofondato al centro della terra.
“Tutto serve a qualcosa, — dissi. — Andrò nel Galles per sei settimane a bere siero di latte di capra, e questo incidente mi farà guadagnare sette anni di più lunga vita.”
Ecco perché mi reputo imperdonabile d’aver biasimato tanto spesso la fortuna, come ho fatto, perché mi ha colpito per tutta la mia vita, da duchessa poco gentile, come la chiamai, con tanti piccoli mali; anzi, se ho qualche ragione d’essere in collera con lei, è di non avermene mandato di grandi: una ventina di buone, dannate, robuste perdite mi sarebbero valse quanto una pensione.
Una di un centinaio di sterline all’anno o giù di li è quanto desidero; non vorrei trovarmi nelle peste di dover pagare un’imposta fondiaria per una maggiore.