Capitolo quinto
Nel quinto giorno del novembre 1718, che, rispetto al tempo fissato, era tanto vicino ai nove mesi di calendario quanto qualsiasi marito avrebbe potuto ragionevolmente aver previsto, fui io, Tristram Shandy [10], Gentiluomo, messo alla luce in questo spregevole e disastroso nostro mondo. Avrei voluto esser nato sulla Luna o su qualsiasi altro pianeta (eccetto Giove o Saturno, perché non ho potuto mai sopportare il freddo) poiché non sarebbe davvero potuto andare peggio per me su uno qualunque di essi (sebbene io non garantirei per Venere) di quanto sia andato in questo vile sporco nostro pianeta, che, in coscienza, con rispetto parlando, presumo sia stato fatto coi ritagli e gli avanzi degli altri. Non già che questo pianeta non vada abbastanza bene, purché un uomo possa nascervi con un gran titolo o un grande patrimonio, o possa in ogni modo escogitare d’essere chiamato a pubbliche cariche o a posti di dignità o potere; ma questo non è il mio caso; e perciò ognuno parlerà del mercato secondo come vi sono andati i propri affari; per il che torno ad affermare che questo è uno dei più vili mondi che mai siano stati creati. Infatti posso veramente dire che, dalla prima ora in cui vi trassi il mio respiro a questa, nella quale posso a stento trarlo per un’asma che mi buscai pattinando contro vento nelle Fiandre, sono stato continuamente lo zimbello di ciò che il mondo chiama Fortuna; e sebbene non le farò il torto di dire ch’ella mi abbia mai fatto sentire il peso di alcuna sciagura grave o notevole, tuttavia, con tutta la serenità di questo mondo, affermo questo di lei: che in ogni momento della mia vita, e a ogni svolta e a ogni angolo in cui appena poté agguantarmi, la scortese duchessa mi ha investito con una serie di miserandi guai e tribolazioni quali mai piccolo Eroe ha subìto.