Capitolo ventinovesimo
«Ora, — disse Didio, alzandosi e portandosi sul petto la mano destra con le dita allargate, — se un simile grossolano errore a proposito di un nome di battesimo fosse accaduto prima della Riforma… [“È accaduto l’altro ieri”, disse lo zio Tobia fra sé] …e quando il battesimo veniva amministrato in latino… [“Era tutto in inglese”, disse lo zio] … molte cose avrebbero potuto coincidervi e, sull’autorità di parecchi casi decretati, si sarebbe potuto dichiarare il battesimo nullo, con la facoltà di dare al bambino un nuovo nome. Se per esempio un prete, per ignoranza della lingua latina, il che era cosa non incomune, avesse battezzato il figlio di Tizio in nomine patriae et filia et spiritum sanctos, il battesimo sarebbe stato considerato nullo.
— Vi chiedo scusa, — interruppe Kisarcio, — in questo caso, siccome l’errore sarebbe stato soltanto nelle desinenze, il battesimo doveva essere valido; e per renderlo nullo, l’errore grossolano del prete avrebbe dovuto essere commesso nella prima sillaba di ogni nome e non, come nel vostro caso, nell’ultima.»
Mio padre si deliziava nelle sottigliezze di questo genere e ascoltava con attenzione infinita.
«Gastrifere, per esempio, — continuò Kisarcio, — battezza il figlio di Caio in Gomine gatris, ecc., ecc., invece che in Nomine patris, ecc. È questo un battesimo? no, rispondono i più esperti canonisti, in quanto la radice di ogni parola è con ciò sradicata, e il senso e il significato d’essa vengono spostati e mutati letteralmente in un altro oggetto; infatti Gomine non significa “nome” né gatris “padre”.
— Che cosa significano? — domandò lo zio Tobia.
— Assolutamente niente, — rispose Yorick.
— Ergo, un tal battesimo è nullo, — disse Kisarcio.
— Naturalmente, — rispose Yorick, in un tono per due parti scherzoso e per una parte serio.
— Ma nel caso citato, — continuò Kisarcio, — in cui patriae sta per patris, filia per filii e così via, siccome si tratta solo di un errore di declinazione, mentre le radici delle parole rimangono intatte, le flessioni dei loro rami in un senso o nell’altro non invalidano in alcun modo il battesimo, dato che il significato delle parole permane inalterato.
— Ma allora, — interloquì Didio, — si deve comprovare che l’intenzione del prete, nel pronunciarle grammaticalmente, fosse quella di conservarne il senso.
— Esatto, — rispose Kisarcio; — e di ciò, confratello Didio, abbiamo un esempio in un decreto dei decretali di papa Leone III [228].
— Ma il bambino di mio fratello, — esclamò lo zio Tobia, — non ha niente che fare col papa: è semplicemente il figlio di un gentiluomo protestante, battezzato Tristram contro la volontà e il desiderio sia del padre sia della madre, e di tutti quelli che gli sono consanguinei…
— Se la volontà e il desiderio, — disse Kisarcio, interrompendo lo zio Tobia, — di coloro soltanto che hanno rapporti di parentela col bambino del signor Shandy dovessero aver peso in questa faccenda, la signora Shandy sarebbe l’ultima persona ad avere voce in capitolo.»
Lo zio Tobia posò la pipa, e mio padre accostò ancor di più la sedia alla tavola, per udire la conclusione d’un esordio così strano.
«Non solo si è posta la questione, capitano Shandy, da parte dei migliori giuristi e penalisti [229] di questa nostra terra “se la madre sia parente del proprio bambino”, — continuò Kisarcio, — ma, dopo molti spassionati esami e scandagliamenti degli argomenti da tutti i lati, essa è stata decisa pella negativa, vale a dire che “la madre non è parente del proprio bambino” [230].»
Mio padre istantaneamente tappò con la mano la bocca dello zio Tobia, col pretesto di bisbigliargli qualcosa all’orecchio; in realtà egli paventava il Lillabullero e, siccome aveva un gran desiderio di sapere di più su un argomento tanto curioso, pregò lo zio Tobia che, per l’amor del cielo, non lo deludesse in questo. Lo zio Tobia annuì, riprese la pipa e s’accontentò di fischiettare Lillabullero dentro di sé. Kisarcio, Didio e Triptolemo continuarono la dissertazione come segue.
«Questa determinazione, — continuò Kisarcio, — per quanto sembri contrastare con le credenze del volgo, ha la ragione saldamente dalla sua, ed è stata completamente messa fuori discussione dopo il famoso caso noto comunemente sotto il nome di caso del duca di Suffolk.
— È citato in Brook, — disse Triptolemo.
— E ne tenne conto Lord Coke [231], — aggiunse Didio.
— E lo potete trovare nel trattato di Swinburn Dei Testamenti, — disse Kisarcio. — Il caso, signor Shandy, era questo.
«Durante il regno di Edoardo VI, Carlo, duca di Suffolk, avendo avuto un figlio di un letto e una figlia d’un altro letto, fece testamento, col quale lasciò dei beni al figlio, e poi morì.
Dopo la sua morte, morí anche il figlio, ma senza testamento, senza moglie e senza figli, mentre erano vive la madre e la sorella per parte di padre (perché questa era figlia di primo letto). La madre assunse l’amministrazione dei beni del figlio, secondo la XXI ordinanza dello statuto di Enrico VIII in cui è decretato che nel caso che una persona muoia intestata, l’amministrazione dei suoi beni sarà affidata al parente più prossimo.
«Essendo l’amministrazione stata così (surrettiziamente) assegnata alla madre, la sorella per parte di padre intentò una causa davanti al Tribunale Ecclesiastico, adducendo: 1[o] — che era lei la parente più prossima; 2° — che la madre non era assolutamente parente della parte deceduta; e perciò pregava la Corte che l’amministrazione concessa alla madre venisse revocata e fosse affidata a lei, come parente più prossima del defunto, in forza del detto statuto.
«Perciò, siccome si trattava di una grossa causa, il cui esito era molto determinante, perché molte cause di grandi proprietà sarebbero probabilmente state decise nei tempi avvenire dal precedente che sarebbe stato allora creato, i più dotti, così nelle leggi di questo reame come in legge civile, furono contemporaneamente consultati per sapere se la madre fosse o no parente del proprio figlio. Al che non solo i giuristi laici, ma anche quelli ecclesiastici, i giureconsulti, i giurisprudenti, i civilisti, gli avvocati, i commissari, i giudici del Concistoro e delle corti prerogative di Canterbury e di York, insieme con i professori delle università, espressero unanimi il parere che la madre non è parente del proprio figlio [232].
— E che ne disse la duchessa di Suffolk?» domandò lo zio Tobia.
L’imprevedibilità della domanda dello zio Tobia imbarazzò Kisarcio più del più abile avvocato. Egli rimase silenzioso per un intero minuto, guardando in faccia lo zio Tobia senza rispondere, e di questo singolo minuto approfittò Triptolemo per assumere il comando come segue:
«È fondamento e principio della legge, — disse Triptolemo, — che le cose non ascendono ma discendono in essa; e io non ho alcun dubbio che appunto per questo motivo, ancorché sia vero che il figlio può essere del sangue e del seme dei suoi genitori, i genitori nondimeno non sono del suo sangue e seme, atteso che i genitori non sono procreati dal figlio, ma il figlio dai genitori. Difatti è scritto: Liberi sunt de sanguine patris et matris, sed pater et mater non sunt de sanguine liberorum.
— Ma questo, Triptolemo, — esclamò Didio, — comprova sin troppo, poiché da questa citata autorità seguirebbe ciò che invero è concordato da tutti, non solo che la madre cioè non è parente del proprio figlio, ma parimente il padre.
— Essa è reputata, — disse Triptolemo, — la migliore opinione; perché il padre, la madre e il figlio, sebbene siano tre persone, pure altro non sono se non (una caro [233]) una stessa carne, e perciò non v’è alcun grado di parentela, né alcun modo di acquistarne uno in natura.
— Ecco che spingete di nuovo l’argomento troppo oltre, — esclamò Didio, — perché non v’è alcuna proibizione in natura, sebbene ve ne sia nella legge levitica, per cui un uomo non possa avere un figlio dalla propria nonna; nel qual caso, supponendo che ne nasca una figlia, questa sarebbe parente sia di…
—- Ma chi ha mai pensato di giacere con la propria nonna? — gridò Kisarcio.
— Il giovane signore di cui parla Selden [234], — rispose Yorick, — il quale non solo ci pensò, ma giustificò la sua intenzione al padre con questo argomento tratto dalla legge del taglione: “Voi, signore, giacete con mia madre”, disse il ragazzo; “perché non posso giacere con la vostra?”
— Questo è l’Argumentum commune [235]; — aggiunse Yorick.
— Esso vale, — rispose Eugenio, prendendo il suo cappello, — quanto lo meritano.»
La compagnia si sciolse.