Capitolo sesto
«Che eserciti prodigiosi avevate nelle Fiandre, fratello Tobia! — disse mio padre, — credo davvero che tu sia un galantuomo, con un cuore buono e retto quale mai Iddio creò; e non è colpa tua se tutti i bambini che sono stati, debbono, possono, saranno, potranno o dovrebbero essere generati, vengono al mondo con la testa in avanti. Ma credimi, caro Tobia, gli accidenti che inevitabilmente li aspettano al varco, non solo nell’atto del concepimento da parte nostra, — sebbene anch’essi, a parer mio, sono davvero degni di considerazione, — ma i pericoli e le difficoltà in mezzo a cui si trovano i nostri bambini dopo esser venuti al mondo sono già sufficienti, e non c’è bisogno di esporli a rischi non necessari al momento del loro ingresso.
— Questi pericoli, — domandò lo zio Tobia, posando una mano sul ginocchio di mio padre e levando seriamente lo sguardo sul suo volto, in attesa di una risposta, — questi pericoli sono più gravi oggi, fratello, che nei tempi passati?
— Fratello Tobia, — rispose mio padre, — se un bambino era concepito convenientemente, se nasceva vivo e sano, e se la madre stava bene dopo il parto, i nostri antenati non si preoccupavano d’altro.»
Lo zio Tobia ritirò immediatamente la mano dal ginocchio di mio padre, tornò ad appoggiarsi lentamente alla spalliera della sedia, alzò la testa tanto quanto era necessario per vedere la cornice della stanza e poi, ordinando ai muscoli buccinatori delle guance e a quelli orbicolari delle labbra di fare il loro dovere, si mise a fischiettare Lillabullero.