Capitolo trentaseiesimo
Ora, per il fatto d’aver detto una volta o due, nel mio sconsiderato modo di parlare, che confidavo che le seguenti memorie del corteggiamento dello zio Tobia alla vedova Wadman, qualora avessi trovato il tempo di scriverle, sarebbero risultate uno dei sistemi più completi dei principi elementari e pratici vuoi dell’amore vuoi del modo di amare che mai sia stato presentato al mondo, dovete forse immaginare da questo che io esordirò con una descrizione di che cos’è l’amore? se sia in parte Dio e in parte Demonio, come pretende Plotino [370]...
Oppure, con un’equazione più critica, e supponendo che tutto l’amore corrisponda a dieci, stabilire col Ficino [371] “quante parti d’esso sia l’uno e quante parti l’altro”; o se sia tutto un grande Demonio, dalla testa alla coda, come Platone si è preso la responsabilità di affermare [372]: a proposito di questo suo concetto, non esprimerò il mio giudizio, ma il mio parere su Platone è questo: ch’egli sembra, da questo fatto, essere stato un uomo dal temperamento e dal modo di ragionare molto simili a quelli del dottor Baynyard [373] il quale, essendo gran nemico delle pustole, nella convinzione che una mezza dozzina d’esse in una volta avrebbero portato un uomo alla tomba con la stessa certezza d’un carro funebre a sei cavalli, concluse avventatamente che lo stesso Demonio altro non fosse al mondo se non una grande e vigorosa Cantaride.
Non ho nulla da dire a gente che si concede questa mostruosa libertà di argomentare, se non quello che il Nazianzeno gridò (cioè in tono polemico) a Filagrio:
“Έυγε! O meraviglia! bel ragionamento, signore, davvero! ότι φιλοσοφείν έν πάτεσι [374]; e assai nobilmente mirate alla verità quando filosofeggiate sull’amore secondo i vostri umori e le vostre passioni.”
Né si deve immaginare, per la stessa ragione, ch’io debba fermarmi a indagare se l’amore sia una malattia, o invischiarmi con Rhasis e Dioscoriae [375] per stabilire se la sua sede sia nel cervello o nel fegato; perché questo mi farebbe trascendere all’esame delle due oppostissime maniere con cui i malati sono stati curati: l’una, quella di Aezio [376], il quale cominciava sempre con un clistere rinfrescante di semi di canapa e cetrioli pestati; passava poi a diluiti decotti di ninfee e portulaca, alle quali aggiungeva un pizzico d’erba Hanea in polvere e, quando osava arrischiarlo, Aezio ricorreva al suo anello di topazio.
L’altra, quella di Gordonio [377], il quale (nel suo De Amore, cap. 15) ordina che i pazienti debbano essere percossi “ad putorem usque”, finché non puzzano di nuovo.
Queste sono disquisizioni con cui mio padre, il quale aveva accumulato una grande scorta di nozioni di questo genere, si darà molto da fare nelle varie fasi della vicenda dello zio Tobia. Io devo soltanto anticipare che dalle sue teorie sull’amore (con le quali, sia detto per inciso, egli riuscì a tormentare l’animo dello zio Tobia quasi quanto lo tormentavano i suoi stessi amori), mio padre fece un unico passo nel campo pratico; e, servendosi di un cerotto canforato, che trovò il modo di spacciare per garza rigida al sarto che stava facendo un nuovo paio di brache allo zio Tobia, provocò nello zio Tobia l’effetto di Gordonio senza la vergogna.
Leggerete in debito luogo quali cambiamenti produsse questo fatto; tutto ciò ch’è necessario aggiungere all’aneddoto è questo: qualunque ne fosse stato l’effetto sullo zio Tobia, esso ebbe un effetto orribile sulla casa; e se lo zio Tobia non l’avesse eliminato mettendosi a fumare, come appunto fece, esso avrebbe potuto avere un orribile effetto anche su mio padre.