Capitolo sesto
STORIA DI LE FEVER
Era un certo giorno dell’estate dell’anno in cui Dendermond venne presa dagli alleati [326], — il che accadde circa sette anni prima che mio padre venisse ad abitare in campagna e press’a poco altrettanti dopo il giorno in cui lo zio Tobia e Trim avevano segretamente tolto il campo dalla casa di mio padre in città per porre alcuni dei più begli assedi ad alcune delle più belle piazzeforti d’Europa, — quando lo zio Tobia una sera stava cenando e Trim era seduto alle sue spalle presso una piccola credenza laterale. Dico seduto, perché, in considerazione del ginocchio invalido del caporale (che qualche volta gli dava delle fitte violente), quando lo zio Tobia pranzava o cenava solo, egli non avrebbe mai tollerato che il caporale stesse in piedi; e la venerazione del pover’uomo per il suo padrone era tale, che, con un’artiglieria adatta, lo zio Tobia avrebbe stentato assai meno a prendere la stessa Dendermond che non a vincere il caporale su questo punto; infatti, molte volte, quando lo zio Tobia immaginava che la gamba del caporale fosse in riposo, nel volgersi scopriva che lui gli era alle spalle in piedi nell’atteggiamento del più doveroso rispetto: il che generava un numero maggiore di piccoli battibecchi tra di loro che non tutti gli altri motivi in venticinque anni consecutivi. Ma questo non ha nulla che vedere con la storia. Perché ne faccio menzione? Domandatelo alla mia penna: è essa che governa me, non sono io a governarla.
Egli era dunque così seduto a cena una sera, quando il padrone d’una piccola locanda del villaggio entrò in salotto, con una bottiglietta vuota in mano, per chiedere un bicchiere o due di vino bianco di Spagna.
«È per un povero gentiluomo, un ufficiale, credo, — disse il locandiere, — il quale s’è ammalato in casa mia quattro giorni fa, e da allora non ha più sollevato la testa né espresso il desiderio d’assaggiare qualcosa fino a questo momento, in cui ha voglia di un bicchiere di vin bianco di Spagna e d’un crostino. “Credo”, ha detto, togliendosi la mano dalla fronte, “che mi darebbe sollievo”. Se non potessi né chiedere, né farmi dare a prestito, né comperare una cosa simile, — aggiunse il locandiere, — andrei quasi a rubarlo per quel povero signore; è tanto malato. Spero in Dio che possa ancora ristabilirsi, — continuò, — siamo tutti in pena per lui.
— Sei un’anima buona: io risponderò di te! — esclamò lo zio Tobia. — E tu berrai un bicchiere dello stesso bianco alla salute del povero signore; prendi un paio di bottiglie, recagli i miei omaggi e digli che gradisca queste di cuore, e anche un’altra dozzina se gli faranno bene.
«Sebbene io sia convinto, — disse lo zio Tobia quando il locandiere ebbe chiuso la porta, — ch’egli è un uomo molto compassionevole, pure non posso fare a meno, Trim, d’avere un’alta opinione anche del suo ospite. Dev’esserci in lui qualcosa di fuori del comune, se in così poco tempo ha saputo guadagnarsi a tal punto l’affetto del suo locandiere.
— E di tutta la sua famiglia, — aggiunse il caporale, — perché sono tutti in pena per lui.
— Vagli dietro, — disse lo zio Tobia, — va’, Trim, e domandagli se sa il suo nome.
— L’ho veramente del tutto dimenticato, — disse il locandiere, rientrando nel salotto col caporale, — ma posso domandarlo di nuovo al figlio.
— Ha un figlio con sé, allora? — disse lo zio Tobia.
— Un ragazzo di un undici o dodici anni, — rispose il locandiere, — ma quella povera creatura non ha quasi toccato cibo come suo padre. Altro non fa se non piangere e lamentarsi per lui giorno e notte. Non s’è mosso dal suo capezzale in questi due giorni.»
Lo zio Tobia posò coltello e forchetta, e allontanò il piatto che aveva davanti a sé, mentre il locandiere gli faceva questo racconto; e Trim, pur non avendo ricevuto l’ordine, sparecchiò senza dir parola, e dopo pochi minuti gli portò pipa e tabacco.
«Resta un momento qui, — disse lo zio Tobia. — Trim! — riprese lo zio Tobia, dopo aver acceso la pipa e aver tirato una dozzina di boccate. Trim si portò di fronte al padrone e s’inchinò; lo zio Tobia continuò a fumare e non disse altro. — Caporale!» disse lo zio Tobia.
Il caporale s’inchinò. Lo zio Tobia non aggiunse verbo, ma fini la sua pipata.
«Trim! — disse lo zio Tobia, — m’è venuto in mente di avvolgermi ben bene nella mia mantellina, siccome è una serataccia, e d’andare a far visita a quel povero signore.
— La mantellina di vostro onore non è stata più indossata, — rispose il caporale, — dalla notte precedente il giorno in cui vostro onore fu ferito mentre montavamo la guardia nelle trincee davanti alla porta di san Nicola; inoltre, è una notte così fredda e piovosa, che, vuoi per la mantellina, vuoi per il tempaccio, ce ne sarà abbastanza da far venire un malanno a vostro onore e da far tornare a vostro onore il tormento all’inguine.
— Lo temo anch’io, — rispose lo zio Tobia, — ma non ho più pace, Trim, da quando ho sentito il racconto del locandiere. Avrei preferito non saper nulla di questa faccenda, — aggiunse lo zio Tobia, — piuttosto di non saperne di più. Che si fa?
— Ci penso io, piacendo a vostro onore, — disse il caporale, — Prenderò cappello e bastone, andrò alla locanda in ricognizione, e agirò di conformità; entro un’ora farò a vostro onore un rapporto completo.
— Va’, Trim, — disse lo zio Tobia, — ed eccoti uno scellino perché tu beva insieme col suo servitore.
— Gli caverò di bocca tutto quello che sa», disse il caporale chiudendo la porta.
Lo zio Tobia si preparò una seconda pipata; e, se non fosse stato che di tanto in tanto si divagava a considerare se non poteva andare altrettanto bene che la cortina della tenaglia fosse in linea retta oppure a forma di gruccia, si potrebbe dire che per tutto il tempo della pipata egli ad altro non pensò se non al povero Le Fever e al suo ragazzo.