Capitolo trentaduesimo

 

ORAZIONE APOLOGETICA DELLO ZIO TOBIA

Non sono inconsapevole, fratello Shandy, del fatto che quando un uomo, la cui professione sia quella delle armi, desidera, come ho fatto io, la guerra, la cosa desta una brutta impressione agli occhi del mondo; e che, per quanto giusti e retti possano essere i suoi motivi e le sue intenzioni, egli si trova nella scomoda posizione di doversi difendere dall’accusa di volerla fare per motivi personali.

Per questa ragione, se il soldato è un uomo prudente, e lo può essere senza che per questo sia d’un iota meno coraggioso, egli vorrà accertarsi di non esprimere il suo desiderio se lo ascolta un nemico; perché, qualunque cosa dica, il nemico non gli crederà. Sarà cauto perfino nel confidarsi a un amico, per timore di scadere nella sua stima. Ma se il suo cuore è gonfio e se un desiderio segreto per le armi deve avere uno sfogo, egli lo serberà per l’orecchio d’un fratello, il quale ne conosce il carattere fin nel profondo e sa quali sono i suoi veri pensieri, quali le vere disposizioni d’animo e i principi d’onore: che cosa, spero, io sia stato rispetto a questi, fratello Shandy, sarebbe disdicevole per me il dirlo; molto peggiore, lo so, io sono stato di quanto non avrei dovuto, e un po’ peggiore, forse, di quanto non giudichi. Ma quale io sono, tu, mio caro fratello Shandy, che hai succhiato il latte dalla stesso seno, tu col quale sono stato cresciuto fin dalla culla, e tu, alla cui conoscenza io non ho mai nascosto, dalle prime ore dei nostri giuochi infantili sino a quest’ora, nessuna azione della mia vita e quasi neppure un pensiero, quale sono, fratello, tu devi ormai conoscermi, con tutti i miei difetti e anche con tutte le mie debolezze, siano esse della mia età, della mia indole, delle mie passioni o del mio intelletto.

Dimmi allora, mio caro fratello Shandy, per quali di questi miei limiti è avvenuto che, quando ho condannato la pace di Utrecht e deplorato che la guerra non sia continuata energicamente per qualche tempo ancora, tu hai pensato che tuo fratello lo abbia fatto per motivi indegni; o che, nel desiderare la guerra, egli fosse così malvagio da desiderare che altri suoi simili fossero uccisi, altri fatti schiavi, e altre famiglie cacciate dalle loro pacifiche dimore, unicamente per suo piacere? Dimmi, fratello Shandy, su quali delle mie azioni fondi il tuo giudizio?

[Il diavolo mi porti se conosco una tua azione, caro Tobia, se non quella per cento sterline, ch’io ti prestai perché tu continuassi quei maledetti assedi].

Se, fin da scolaretto, non potevo sentir battere un tamburo senza che anche il mio cuore battesse, era forse colpa mia? Fu io a radicarvi questa tendenza? Fui io a sonare l’allarme nel mio cuore o la Natura?

Quando le storie di Guido, conte di Warwick, di Parisino e Parismeno, di Valentino, di Orson e dei Sette Campioni d’Inghilterra [365] circolavano nella scuola, non furono tutte acquistate con i miei propri spiccioli? Era egoismo questo, fratello Shandy? Quando leggevamo l’assedio di Troia, che durò dieci anni e otto mesi, — sebbene con l’artiglieria che avevamo a Namur la città avrebbe potuto essere espugnata in una settimana, — non ero forse afflitto per la distruzione dei Greci e dei Troiani quanto nessun altro ragazzo in tutta la scuola? Non mi furono inferii tre colpi di bacchetta, due sulla mano destra e uno sulla sinistra, per aver dato di donna scostumata a Elena? Versò alcuno di voi più lacrime per Ettore? E quando il re Priamo venne al campo ad implorarne il corpo e se ne tornò piangente a Troia senza di esso, tu sai, fratello, che non riuscii a mangiare a pranzo.

Ciò mi rivelò crudele? O perché, fratello Shandy, il mio sangue correva al campo e il mio cuore palpitava per la guerra, era forse questa una prova ch’esso non sapesse anche soffrire per le sciagure della guerra?

O fratello! una cosa è per un soldato raccogliere alloro, e un’altra è lo spargere cipresso.

[Chi ti disse, mio caro Tobia, che il cipresso era usato dagli antichi nelle cerimonie funebri?]

Una cosa, fratello Shandy, è per un soldato arrischiare la propria vita, saltare per primo nella trincea, dov’è sicuro d’esser fatto a pezzi; una cosa è, per amor patrio e sete di gloria, passare per primo nella breccia, stare in primissima fila e marciare in avanti coraggiosamente al suono di trombe e tamburi e con le bandiere che sventolano sul suo capo. Una cosa, dico, fratello Shandy, è far questo, e un’altra cosa è meditare sulle miserie della guerra, contemplare la desolazione d’intere contrade e considerare le insopportabili fatiche e privazioni cui il soldato stesso, che ne è lo strumento, è costretto (per sei pence al giorno, se gli va bene) a sottoporsi.

È necessario che mi si dica, caro Yorick, come mi fu detto da voi nel sermone funebre di Le Fever “Che una creatura così mite e dolce come l’uomo, nata per l’amore, per la pietà e per la gentilezza, non fu fatta per tutto ciò”? Ma perché non aggiungeste, Yorick, che, se non è così per natura, lo è per necessità? Perché, che cos’è la guerra? che cos’è, Yorick, quando è combattuta com’è stata la nostra per principi di libertà e per principi d’onore; che cos’è se non il riunirsi di gente tranquilla e inoffensiva, con le spade in pugno, per tenere a freno gli ambiziosi e i turbolenti? E il cielo m’è testimone, fratello Shandy, che il piacere che ho tratto da queste cose e quell’infinito diletto, in particolare, che ha accompagnato i miei assedi sul campo di bocce sono nati in me, e spero anche nel caporale, dalla consapevolezza che entrambi, nell’eseguirli, rispondevamo ai grandi fini della nostra creazione.

Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo
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