Capitolo quattordicesimo
Alla fine dell’ultimo capitolo abbiamo lasciato mio padre e lo zio Tobia entrambi in piedi, come Bruto e Cassio al termine della scena, a concludere il loro discorso [103].
Non appena ebbe pronunciate le ultime tre parole, mio padre si sedette; lo zio Tobia seguì esattamente il suo esempio, solo che, prima di accomodarsi, sonò il campanello per ordinare al caporale Trim, ch’era in attesa, di andare a prendergli a casa lo Stevinus, trovandosi la casa dello zio Tobia non oltre il lato opposto della strada.
Altri avrebbe lasciato cadere l’argomento di Stevinus; ma lo zio Tobia non serbava risentimento in cuore e continuò sullo stesso argomento per darne la prova a mio padre.
«La vostra apparizione improvvisa, dottor Slop, — disse lo zio, riprendendo il suo discorso, mi ha fatto subito pensare a Stevinus. — (Mio padre, potete crederlo, si guardò bene dal fare altre scommesse sulla testa dello Stevinus). — Perché, — continuò lo zio Tobia, — il famoso carro a vela, che apparteneva al principe Maurizio ed era un congegno così mirabile e rapido da portare una mezza dozzina di persone per trenta miglia tedesche in non so quanti pochi minuti, fu inventato da Stevinus, il grande matematico e ingegnere [104].
— Avreste potuto risparmiare al vostro domestico (dato che il poveretto è zoppo), — disse il dottor Slop, — la fatica di andare a cercare la sua descrizione sullo Stevinus, perché nel mio viaggio di ritorno da Leida, passando per l’Aja, andai a piedi fino a Scheveningen, che vi dista due buone miglia, allo scopo di vederlo.
— Questo non è niente, — replicò lo zio Tobia, — in confronto a quel che fece il dotto Peireskius [105], il quale camminò la bellezza di cinquecento miglia, calcolando da Parigi a Scheveningen e il ritorno da Scheveningen a Parigi, per vedere nient’altro che quello. Alcuni uomini non possono sopportare d’essere superati.
— Tanto più sciocco quel Peireskius, — replicò il dottor Slop. Ma badate, non si trattava assolutamente di disprezzo, ma del fatto che l’instancabile fatica di Peireskius nel trascinarsi così lontano a piedi per amore delle scienze aveva ridotto a nulla l’impresa del dottor Slop in questa faccenda.
— Tanto più sciocco quel Peireskius, — ripeté.
— Perché mai? — domandò mio padre, prendendo le parti del fratello, non solo per riparare al più presto all’insulto fattogli che ancora gli pesava sull’animo, ma in parte perché mio padre cominciava a interessarsi realmente alla conversazione. — Perché mai? — disse. — Perché ingiuriare Peireskius o chicchessia per un appetito di questo o di qualsiasi altro boccone di sana conoscenza? Infatti, sebbene io non sappia nulla del carro di cui si tratta, — continuò, — il suo inventore deve aver avuto il bernoccolo della meccanica; e benché io non riesca a immaginare su quali principi di filosofia egli l’abbia attuata, indubbiamente la sua macchina è stata costruita su principi solidi, quali essi siano, altrimenti essa non avrebbe potuto raggiungere la velocità di cui parla mio fratello.
— La raggiungeva se non la superava, — replicò lo zio Tobia; — infatti, come Peireskius elegantemente si esprime parlando della velocità del suo moto, Tam citus erat, quam erat ventus, il che, se non ho dimenticato il mio latino, significa che era veloce come il vento stesso.
— Ma scusate, dottor Slop, — disse mio padre interrompendo lo zio (non senza avergliene però chiesto scusa nello stesso tempo), — su quali principi si fondava il movimento di questo carro?
— Sicuramente su principi ingegnosissimi, — rispose il dottor Slop, — e io mi sono spesso domandato, — continuò eludendo la domanda, — perché nessuno dei signorotti che vivono su ampie pianure come queste nostre (specialmente quelli la cui moglie è ancora in età di avere figli) abbia mai tentato qualcosa di simile; perché ciò non sarebbe soltanto infinitamente rapido nelle improvvise richieste alle quali è soggetto il sesso femminile, sempre che serva soltanto il vento, ma sarebbe un’economia eccellentemente buona servirsi dei venti che non costano nulla e che non mangiano nulla, piuttosto che dei cavalli i quali (il diavolo se li porti) costano e mangiano moltissimo.
— Appunto per la ragione, — ribatté mio padre, — “che non costano nulla e che non mangiano nulla” il progetto è cattivo. È il consumo dei nostri prodotti, così come la loro fabbricazione, che dà pane agli affamati, diffonde il commercio, apporta denaro e sostiene il valore delle nostre terre; e quantunque io ammetta che, se fossi un principe, ricompenserei generosamente la testa scientifica che producesse simili invenzioni, tuttavia altrettanto perentoriamente ne sopprimerei l’impiego.»
Mio padre era ormai nel suo elemento e procedeva tanto prosperosamente nella sua dissertazione sul commercio quanto lo zio Tobia l’aveva fatto prima nella sua sulle fortificazioni.
Ma, a detrimento di molta sana conoscenza, quella mattina il destino aveva decretato che nessuna dissertazione di nessun genere dovesse essere svolta da mio padre quel giorno, giacché, non appena aprì la bocca per cominciare la frase successiva,…