Capitolo dodicesimo
Ma torniamo a mia madre.
L’opinione dello zio Tobia, signora, “che non ci poteva essere nulla di male nel fatto che il pretore romano Cornelio Gallo giacesse con la moglie”, o meglio l’ultima parola di questa opinione (che fu tutto ciò che mia madre poté sentire), fece presa in lei su ciò ch’è il lato debole di tutto il sesso femminile: non fraintendetemi, intendo dire la sua curiosità. Ella concluse immediatamente d’essere l’oggetto della conversazione e, con questa prevenzione nella mente, potete prontamente immaginare come ogni parola pronunciata da mio padre fosse da lei riferita a sé stessa o ai fatti della sua famiglia.
Per favore, signora, in quale strada dimora la dama che non avrebbe fatto altrettanto?
Dalla strana morte di Cornelio, mio padre era passato a quella di Socrate, e stava fornendo allo zio Tobia un compendio della sua apologia davanti ai giudici. Fu irresistibile: non l’orazione di Socrate, ma la tentazione che ebbe mio padre a recitarla. Egli stesso aveva scritto una Vita di Socrate [266] l’anno prima di ritirarsi dal commercio, il che, temo, fu il modo di affrettargli l’uscita; cosicché nessuno più di mio padre, in quella circostanza, sarebbe stato in grado di navigare a vele così spiegate e in così gonfi flutti d’eroica grandezza. Non c’era periodo dell’orazione di Socrate che non terminasse con una parola più breve di “trasmigrazione” o “annichilimento”, né pensiero nella metà d’esso peggiore di “essere” o “non essere”, dell’ “entrare in un nuovo o intentato stato di cose” o “in un lungo, profondo e placido sonno, senza sogni, senza agitazioni”; “che noi e i nostri figli eravamo nati per morire, ma nessuno di noi era nato per essere schiavo...” No, c’è uno sbaglio: questo fa parte dell’orazione di Eleazaro come riferisce Giuseppe (de Bell. Judaic.) [267]. Eleazaro ammette di averlo preso dai filosofi indiani; con tutta probabilità, Alessandro Magno, irrompendo in India dopo aver invaso la Persia, tra le molte cose che rubò, rubò anche questo sentimento; per mezzo suo esso venne trasportato, se non per tutto il percorso personalmente (poiché sappiamo ch’egli morì a Babilonia), per lo meno da qualche suo saccheggiatore, in Grecia; dalla Grecia giunse a Roma, da Roma in Francia, e dalla Francia in Inghilterra: così girano le cose.
Con trasporto per via di terra non posso concepire altra maniera.
Per via acquea il sentimento potrebbe facilmente essere sceso col Gange fino al Sinus Gangeticus o Baia del Bengala, e di qui nel Mare Indiano; seguendo poi la via commerciale (poiché la rotta dall’india per il capo di Buona Speranza era allora sconosciuta) potrebbe essere stato trasportato, insieme con altre droghe e spezie, per il Mar Rosso sino a Gedda, il porto della Mecca, o anche a Tor o a Suez, città in fondo al golfo, e di qui per carovana a Copto, che dista solo tre giorni di marcia; poi, giù per il Nilo, direttamente ad Alessandria, dove il sentimento sarebbe sbarcato proprio ai piedi del grande scalone della Biblioteca Alessandrina, e da questo deposito sarebbe stato tratto. Misericordia! a quale traffico erano costretti i dotti in quei giorni [268]!