Capitolo trentottesimo
O Slawkenbergius [181]! Tu, fedele analizzatore delle mie disgrazias, triste pronosticatore delle tante sferzate e duri colpi che in uno stadio o nell’altro della mia vita si sono abbattuti su di me per il mio naso corto e, ch’io sappia, per nessun’altra causa! dimmi, o Slawkenbergius: quale segreto impulso fu esso mai? quale intonazione di voce? donde venne? come sonò alle tue orecchie? sei sicuro d’averlo udito colui che per la prima volta ti gridò: “va’, va’, Slawkenbergius! consacra le fatiche della tua vita, trascura i tuoi svaghi, chiama a raccolta tutte le forze e le facoltà della tua natura, macera te stesso al servizio dell’umanità e scrivi per essa un grande in folio che per soggetto abbia i suoi nasi?”
Come tale comunicazione fosse convogliata entro il sensorio di Slawkenbergius, in modo ch’egli riconoscesse il dito di chi toccava il tasto e la mano di chi faceva soffiare i mantici, lo possiamo soltanto congetturare, dal momento che Hafen Slawkenbergius è morto e giace nella tomba da oltre diciotto lustri.
Slawkenbergius, per quanto ne so, veniva sonato come uno dei discepoli di Whitefìeld [182], cioè con una così chiara capacità di riconoscere, signore, quali dei due padroni si stesse esercitando sul suo strumento, da rendere superfluo ogni ragionamento al riguardo.
Infatti, nel ragguaglio che Hafen Slawkenbergius dà al mondo dei motivi e delle occasioni che lo spinsero a scrivere e a consumare tanti anni della sua vita intorno a quest’unica opera, verso la fine dei suoi prolegomeni (i quali, sia detto per inciso, dovevano venir prima, ma il legatore molto sconsideratamente li ha inseriti tra l’indice analitico del libro e il libro stesso) egli informa il lettore che, sin da quando giunse all’età della ragione e fu in grado di mettersi a considerare freddamente tra sé il vero stato e la vera condizione dell’uomo, e a distinguere il fine primario e l’intento del suo esistere; o, per abbreviare la mia traduzione, poiché il libro di Slawkenbergius è in latino e in questo passo non poco prolisso: “Sin da quando cominciai a capire una qualunque cosa, — dice Slawkenbergius, — o meglio a cogliere l’essenza delle cose e potei accorgermi che l’argomento dei lunghi nasi era stato trattato troppo vagamente da tutti i miei predecessori, io, Slawkenbergius, sentii un forte impulso e un potente e irresistibile richiamo dentro di me a slanciarmi in quest’impresa”.
E, per rendere giustizia a Slawkenbergius, va detto che egli è entrato in lizza con una lancia più robusta e ha occupato un campo molto più ampio di qualsiasi altro che vi fosse mai entrato prima di lui; e invero per molti rispetti egli merita d’essere messo in una nicchia come prototipo per tutti gli scrittori, per lo meno di opere voluminose, affinché lo prendano a modello per i loro libri; perché egli, signore, ha abbracciato l’intero soggetto, ne ha esaminato ogni parte dialetticamente, portandolo quindi in piena luce; dilucidandolo con tutte le illuminazioni che, sia la collisione delle sue doti naturali poteva fare scaturire, sia la più profonda conoscenza delle scienze, l’aveva reso capace di gettarvi sopra; collazionando, raccogliendo e compilando; mendicando, prendendo a prestito e rubando, man mano che procedeva, tutto ciò ch’era stato scritto o dibattuto sull’argomento nelle scuole o sotto i portici dei dotti [183]: cosicché il libro di Slawkenbergius può realmente essere considerato non solo come un modello, ma come un digesto completo e perfetto e un trattato in piena regola sui nasi, comprendente tutto ciò che è o può essere necessario conoscere in materia.
Appunto per questo fatto mi astengo dal parlare di tanti libri e trattati (per altri aspetti) preziosi della collezione di mio padre, scritti specificatamente sui nasi o che ne trattano indirettamente; come per esempio il Prignitz, che ora giace sulla tavola davanti a me, il quale con infinita dottrina e dal più imparziale e scientifico esame di oltre quattromila crani diversi in più di venti ossari della Slesia, ch’egli aveva frugato, ci informa che la misura e la configurazione delle parti ossee dei nasi umani, in qualsiasi tratto di paese dato, eccetto la Crimea tartarica, dove vengono tutti schiacciati col pollice, cosicché non si può formulare nessun giudizio su di essi, sono più simili tra loro di quanto non s’immagini comunemente. La differenza tra di essi, egli dice, è una mera sciocchezza neppure degna di nota, mentre la dimensione e l’amenità di ogni singolo naso, per cui uno viene classificato più in su d’un altro e raggiunge un prezzo maggiore, sono dovute alle sue parti cartilaginose e muscolari, nei cui vasi e seni il sangue e gli spiriti animali, essendo spinti e immessi dal calore e dalla forza dell’immaginazione, che ne dista solo di un passo (eccetto il caso degli idioti che Prignitz, il quale era vissuto per molti anni in Turchia, suppone che fossero sotto la più immediata protezione del Cielo), accadde perciò e sempre deve accadere, dice il Prignitz, che l’eccellenza del naso è in proporzione aritmetica diretta con l’eccellenza della fantasia di chi lo porta.
Per la stessa ragione, vale a dire perché tutto ciò è compreso in Slawkenbergius, non dirò nulla neppure di Scroderus (Andrea) che, come tutti sanno, si mise ad attaccare con grande violenza Prignitz, dimostrando a modo suo, prima logicamente e poi con una serie incontrovertibile di fatti, “che Prignitz era a tal punto lontano dalla verità affermando che era la fantasia a creare il naso, che, al contrario, era il naso a creare la fantasia”.
I dotti sospettarono Scroderus d’avere con ciò usato un ignobile sofisma, e Prignitz nella disputa gridò chiaro e tondo che Scroderus aveva rovesciato i termini del suo pensiero; ma Scroderus continuò imperterrito a sostenere la sua tesi.
Mio padre stava soppesando tra sé quale delle due parti dovesse prendere in questa faccenda, quando Ambrogio Paré decise la cosa in un momento e, col demolire sia il sistema di Prignitz sia quello di Scroderus, trascinò di colpo mio padre fuori d’ambo le parti della controversia.
Sappiate…
Nel dirlo, non pretendo di rendere edotto il lettore, ne faccio menzione soltanto per mostrare ai dotti che io stesso conosco il fatto.
…che questo Ambrogio Paré era capo chirurgo e riparatore di nasi di Francesco IX di Francia e in grande credito presso di lui e presso i due re, precedenti o seguenti (non so quali), e che, a parte l’errore che commise nella faccenda dei nasi di Tagliacozzo [184] e alla sua maniera di attaccarli, era considerato dall’intero collegio medico del tempo come il più competente in materia di nasi fra quanti se ne fossero mai occupati.
Ora, Ambrogio Paré convinse mio padre che la causa vera ed efficiente di ciò che aveva tanto richiamato l’attenzione del mondo intero, e su cui Prignitz e Scroderus avevano sciupato tanta sapienza e talento, non era né l’una né l’altra; ma che la lunghezza e la bontà del naso dipendevano semplicemente dalla morbidezza e dalla flaccidità del petto della nutrice, dal momento che la piattezza e la cortezza dei nasi neonati erano dovute alla solidità e alla elastica resistenza del detto organo di nutrizione nelle donne sane e prosperose; il che, se era una fortuna per la donna, era la rovina del bambino, in quanto il suo naso veniva perciò schiacciato, compresso, pigiato e raffreddato a tal punto da non arrivare mai ad mensuram suam legitimam, mentre nel caso di flaccidità e morbidezza del petto della nutrice o della madre, il naso, dice il Paré, affondandovi come in altrettanto burro, ne è confortato, nutrito, ingrassato, ristorato, rifocillato e messo nelle condizioni di svilupparsi indefinitamente [185].
Ho soltanto due cose da osservare a proposito del Paré: in primo luogo, ch’egli dimostra e illustra tutto questo con la massima castigatezza e decenza di espressione; per il che possa la sua anima riposare eternamente in pace!
In secondo luogo che, oltre ai sistemi del Prignitz e dello Scroderus, che l’ipotesi di Ambrogio Paré distrusse efficacemente, questa distrusse allo stesso tempo il sistema di pace e di armonia della nostra famiglia; e per tre giorni di seguito non solo causò una discordia tra mio padre e mia madre, ma mise del pari completamente sottosopra l’intera casa e ogni cosa in essa, eccetto lo zio Tobia.
Certamente, mai in nessuna età o paese trovò sfogo attraverso il buco della serratura di un portone di casa una storia di litigio tra marito e moglie più ridicola di questa.
Dovete sapere che mia madre… Ma prima ho cinquanta cose più essenziali da farvi sapere; vi sono cento difficoltà che ho promesso di chiarire e mille guai e seccature domestiche che mi si riversano addosso fitte, tre volte fitte, una sull’altra: una mucca irruppe (domani mattina [186]) nelle fortificazioni dello zio Tobia, e mangiò fino all’ultimo filo due razioni e mezzo di erba secca, strappando con essa le zolle che rivestivano il suo corno e il suo camminamento. Trim insiste che lo si deferisca a una corte marziale, che la mucca venga fucilata, che Slop sia crocifisso, ch’io stesso sia tristrameggiato e fatto martire all’atto del mio battesimo. Che poveri infelici diavoli siamo tutti! Ho bisogno di esser messo nelle fasce, e non v’è tempo da perdere in esclamazioni. Ho lasciato mio padre steso sul letto e lo zio Tobia seduto accanto a lui nella vecchia poltrona a frange, e avevo promesso che sarei tornato a loro dopo mezz’ora; e trentacinque minuti sono già trascorsi. Di tutte le perplessità in cui mai autore si sia trovato, questa è certamente la maggiore, perché, signore, ho da finire l’in folio di Hafen Slawkenbergius, da riferire un dialogo tra mio padre e lo zio Tobia sulla soluzione di Prignitz, Scroderus, Ambrogio Paré, Ponocrate e Grangousier [187], ho da tradurre una novella di Slawkenbergius, e tutto questo in nessun tempo meno cinque minuti [188]. Povera la mia testa! Volesse il Cielo che i miei nemici vedessero solo quel che c’è dentro!