Capitolo quarto
Non darei un soldo per la sapienza in abilità di penna di quello scrittore il quale non capisse che anche la migliore e più semplice narrazione di questo mondo, fatta seguire subito dopo l’ultima appassionata apostrofe allo zio Tobia, sarebbe parsa fredda e insipida al palato del lettore. Per tale ragione ho senz’altro posto fine al capitolo, sebbene fossi solo a metà della mia storia.
Gli scrittori del mio stampo hanno in comune coi pittori un principio: se un’imitazione scrupolosa rende il quadro meno avvincente, noi scegliamo il minore dei due mali, giudicando che è più perdonabile peccare contro la verità che contro la bellezza. Ciò va inteso cum grano salis; ma sia come si voglia: siccome il paragone è stato fatto più per lasciare raffreddare l’apostrofe che non per altri scopi, non è molto importante che il lettore, per qualsiasi altro motivo, lo approvi oppure no.
In capo al terzo anno, accorgendosi che il parametro e il semiparametro della sezione conica irritavano la sua ferita, lo zio Tobia mise da parte con un uff! lo studio dei proiettili per dedicarsi unicamente alla parte pratica delle fortificazioni. La passione per queste, come una molla compressa, risorse in lui con raddoppiato vigore.
Appunto in quell’anno lo zio cominciò a trascurare l’abitudine quotidiana di una camicia pulita, a licenziare il barbiere senza farsi radere e a lasciare al chirurgo appena il tempo necessario per medicargli la ferita, preoccupandosene così poco, al punto di non chiedergli una volta su sette medicature com’essa andasse; quand’ecco che all’improvviso, il mutamento avvenne infatti con la rapidità del lampo, egli cominciò a sospirare profondamente la guarigione, a lagnarsi con mio padre, a spazientirsi col chirurgo; e una mattina, appena ne udì i passi per le scale, chiuse i libri e spinse da parte i suoi strumenti allo scopo di fare le sue rimostranze per la lentezza della cura che, gli disse, avrebbe dovuto essere ormai finita da un pezzo. Indugiò a lungo sulle sofferenze sopportate e sui tormenti dei suoi quattro anni di malinconica prigionia, aggiungendo che, se non fosse stato per le squisite attenzioni e per gli amorevoli incoraggiamenti del migliore dei fratelli, sarebbe da lungo sprofondato sotto il peso delle sue disgrazie. Mio padre era presente: l’eloquenza dello zio Tobia gli fece venire le lacrime agli occhi; essa era inattesa: lo zio Tobia non era eloquente di natura; essa ebbe un effetto maggiore. Il chirurgo rimase confuso; non già che mancassero motivi per tali o maggiori segni d’impazienza, ma la cosa era del tutto inaspettata. Durante i quattro anni in cui lo aveva curato, egli non aveva visto nulla di simile nella condotta dello zio Tobia; questi non si era mai lasciato sfuggire una parola d’insofferenza o di malcontento: era sempre stato tutto pazienza e sottomissione.
A volte noi perdiamo il diritto di lagnarci astenendoci dal farlo; ma spesso ne triplichiamo la forza. Il chirurgo fu stupefatto, ma lo fu assai di più quando udì lo zio Tobia continuare e insistere perentoriamente perché gli guarisse la ferita sul momento oppure mandasse a chiamare Monsieur Ronjat [87], primo chirurgo del re, affinché lo facesse al suo posto.
Il desiderio di vita e di salute è insito nella natura umana; l’amore della libertà e del non esser confinato ne è la passione sorella. Queste passioni lo zio Tobia le aveva in comune con i suoi simili, e una d’esse sarebbe bastata a giustificare il suo ardente desiderio di star bene e di uscire. Ma vi ho già detto che nella nostra famiglia nulla accadeva secondo la normalità: e, dal tempo e dalla maniera in cui quell’ardente desiderio si manifestò nel presente caso, il lettore perspicace sospetterà che vi fosse qualche altra causa o capriccio nella testa dello zio Tobia: era proprio così, e sarà oggetto del prossimo capitolo spiegare quali erano quella causa e quel capriccio. Ammetto che, quando ciò sarà fatto, sarà tempo di tornare nel salotto accanto al camino, dove lasciammo lo zio Tobia a metà della sua frase.