Capitolo ventunesimo
«Vorrei sapere che cos’è tutto questo rumore e questo correre su e giù per le scale, — disse mio padre rivolgendosi, dopo un’ora e mezzo di silenzio, allo zio Tobia il quale, dovete sapere, era seduto al lato opposto del camino, fumando la sua pipa familiare per tutto il tempo, in muta contemplazione di un nuovo paio di brache di felpa nera che s’era messo. — Che mai stanno facendo, fratello? — disse mio padre, — possiamo a malapena sentire quel che diciamo.
— Credo, — rispose lo zio Tobia, togliendosi la pipa di bocca e battendone il fornello due o tre volte sull’unghia del pollice sinistro come cominciò la sua frase, — credo…», disse.
Ma per penetrare esattamente nei sentimenti dello zio Tobia al riguardo, dovete prima essere introdotti un poco nel suo carattere di cui vi darò subito i lineamenti, e allora il dialogo tra lui e mio padre potrà benissimo continuare.
Per favore, qual era il nome di quell’uomo, — perché sono in una tale fretta da non aver il tempo di ricordarmelo o di mettermi a cercarlo, — che per primo fece l’osservazione “che vi è una grande incostanza nella nostra aria e nel nostro clima”? Chiunque fosse, la sua fu un’osservazione giusta e saggia. Ma il corollario derivatone, cioè “che è stato ciò a fornirci di una simile varietà di caratteri strani e bizzarri”, non era suo; fu scoperto da un altro, almeno un secolo e mezzo dopo. Di contro, il fatto che “questo ricco emporio di materiali originali è la causa vera e naturale per cui le nostre commedie sono tanto migliori di quelle di Francia o di qualsiasi altra scritta o che possa essere scritta sul continente europeo” è una scoperta che non fu fatta integralmente se non verso la metà del regno di re Guglielmo [59], quando il grande Dryden, nello scrivere una delle sue lunghe prefazioni (se non sbaglio), ebbe la grandissima fortuna di imbattervisi. In verità, verso la fine del regno della regina Anna il grande Addison cominciò a patrocinare l’idea e la spiegò più compiutamente al mondo in uno o due dei suoi Spectators; ma la scoperta non fu sua. Infine, in quarto e ultimo luogo, ”il fatto che questa strana irregolarità del nostro clima, producendo una così strana irregolarità nei nostri caratteri, ci compensa con ciò in qualche modo dandoci di che rallegrarcene quando il tempo non ci permette di uscire” è un’osservazione mia; ed è scaturita in me in questo piovosissimo giorno, 26 marzo 1759, tra le ore nove e le dieci del mattino.
Così, così, o miei compagni di lavoro e associati in questa grande messe della nostra cultura, che ora sta maturando sotto i nostri occhi, così, per i lenti gradini di un occasionale accrescimento, le nostre cognizioni fisiche, metafisiche, fisiologiche, polemiche, nautiche, matematiche, enigmatiche, tecniche, biografiche, romantiche, chimiche e ostetriche, con altri cinquanta rami dello scibile (di cui la maggior parte, come questi, terminano in iche) si sono da due secoli e più progressivamente arrampicati verso quell’Аχμή [60] della loro perfezione dalla quale, se ci è dato fare una congettura dai progressi di questi ultimi sette anni, non possiamo esser troppo lontani.
Quando ciò accadrà, c’è da sperare che porrà fine a ogni genere di scritti qualsivoglia; la mancanza di ogni genere di scritti porrà fine a ogni genere di lettura; e col tempo, come la guerra genera la povertà e la povertà la pace, ciò dovrà por fine a ogni genere di conoscenza, e allora dovremo ricominciare tutto da capo o, in altre parole, saremo esattamente al punto di partenza.
Felici tempi, tre volte felici! Io avrei solo voluto che l’èra del mio concepimento così come il modo e la maniera d’esso fossero stati un po’ ritoccati; o che si fosse potuto ritardare, con tutto comodo di mio padre e di mia madre, di un venti o venticinque anni, quando cioè un uomo nel mondo letterario avesse potuto avere qualche possibilità.
Ma dimenticavo lo zio Tobia, che per tutto questo tempo abbiamo lasciato intento a battere la cenere fuori della sua pipa.
La sua indole era di quella particolare specie che fa onore alla nostra atmosfera; e non avrei il minimo scrupolo a schierarlo tra i suoi prodotti di prima qualità, se in tale indole non fossero apparsi troppi elementi tipici di famiglia che mostravano come egli derivasse la singolarità del suo temperamento più dal sangue che non dall’aria o dall’acqua o da qualsiasi loro modificazione o combinazione. Mi sono perciò spesso domandato come mai mio padre, sebbene io creda che avesse le sue buone ragioni, osservando alcuni segni di eccentricità nella mia condotta quand’ero ragazzo, non avesse tentato neppure una volta di darne la spiegazione a questo modo: che tutta la famiglia Shandy era di carattere assolutamente originale. Mi riferisco ai maschi: le femmine non avevano affatto carattere, tranne, in verità, la mia prozia Dina la quale, circa sessant’anni fa, sposò il cocchiere e ne ebbe un figlio, per il che mio padre, secondo la sua ipotesi sui nomi di battesimo, soleva spesso dire che “poteva ringraziare padrini e madrine [61]”.
Sembrerà molto strano, ma io preferirei mettere i lettori davanti a un indovinello, il che non ho interesse a fare, piuttosto che dar loro da indovinare come mai poté accadere che un evento di questo genere, tanti anni dopo ch’era avvenuto, potesse essere destinato a interrompere la pace e l’unione, per il resto così cordiale, tra mio padre e lo zio Tobia. Si sarebbe potuto pensare che tutto il vigore della disgrazia avesse dovuto sfogarsi e spegnersi subito in famiglia, com’è generalmente il caso. Ma nella nostra famiglia mai nulla si attuava secondo i modi ordinari. Può darsi che proprio al tempo in cui ciò accadde ci fosse qualcos’altro che l’affliggeva; e siccome le afflizioni sono mandate dal cielo per il nostro bene, ma questa non aveva portato alcun bene alla famiglia Shandy, probabilmente essa aspettava che tempi e circostanze adatti le dessero l’opportunità di adempiere il suo compito.
Si badi che io non voglio trarne nessuna conclusione. La mia condotta è sempre quella d’indicare al curioso differenti aree d’investigazione per giungere alle prime scaturigini degli eventi che racconto, non con una pedante bacchetta da lavagna né alla maniera risolutiva di Tacito, che mette nel sacco sé stesso e il suo lettore, ma con la servizievole umiltà di un cuore votato unicamente all’assistenza degli spiriti indagatori. Per questi io scrivo, e da questi sarò letto fino alla line del mondo, ammesso che una lettura di questo genere possa resistere tanto.
Il perché questa causa di dolore, quindi, fosse stata così riservata a mio padre e a mio zio non è stato da me determinato; ma sono in grado di spiegarvi con grande esattezza come e in quale direzione si sia esercitata, tanto da diventare la causa di malcontento tra loro dopo che cominciò a operare; e ciò avvenne come segue:
Lo zio Tobia Shandy, signora, era un gentiluomo il quale, insieme con le virtù che di solito costituiscono il carattere di un uomo d’onore e retto, ne possedeva in sommo grado una che raramente o mai è inclusa nel catalogo: un’estrema e un’impareggiabile pudicizia naturale; sebbene io debba correggere la parola naturale per la ragione che non posso pregiudicare un punto che deve essere tra breve discusso, e cioè se questa sua pudicizia fosse naturale o acquisita. Quale che fosse stato il modo in cui lo zio Tobia ne era stato dotato, essa era nondimeno pudicizia nel senso più vero della parola; cioè, signora, non riguardo alle parole, perché egli era tanto sfortunato da avere pochissima scelta d’esse, ma ai fatti; e questo genere di pudicizia lo dominava a tal punto e s’innalzava in lui a tale altezza, da eguagliare quasi, se ciò fosse possibile, perfino la pudicizia di una donna: quella delicatezza femminile, signora, e quell’intima lindezza di mente e d’immaginazione, propria del vostro sesso, che fa sì che ispiriate tanto timore reverenziale al nostro.
Voi immaginerete, signora, che lo zio Tobia avesse attinto tutto ciò direttamente alla sorgente; che avesse trascorso gran parte del suo tempo in dimestichezza con persone del vostro sesso; e che dalla completa conoscenza di voi donne, e per la forza di emulazione che esempi così belli rendono irresistibile, egli avesse acquisito questa piacevole tendenza. Vorrei poterlo affermare; ma tranne che con sua cognata, la moglie di mio padre e madre mia, lo zio Tobia aveva scambiato sì e no tre parole col gentil sesso in egual numero di anni; no, egli l’acquisì, signora, per un colpo.
— Un colpo!
— Si, signora, ciò accadde per effetto del colpo di una pietra che, divelta da una palla dal parapetto di un’opera a forma di corno all’assedio di Namur [62], colpì in pieno lo zio Tobia all’inguine.
— E come poté produrre un simile effetto?
— La storia di questo fatto, signora, è lunga e interessante; ma a narrarvela qui, si accumulerebbero troppe cose. Sarà per un episodio che seguirà; e ogni circostanza a esso inerente vi sarà fedelmente esposta nel luogo appropriato. Fino a quel momento non è in mio potere dare ulteriori lumi sull’argomento, o dire più di quanto abbia già detto, che cioè mio zio Tobia era un gentiluomo di impareggiabile pudicizia, alla quale accadeva d’essere alquanto decantata e rarefatta dal costante calore di un piccolo orgoglio di famiglia; l’una e l’altro operavano entro di lui in modo tale, ch'egli non poteva mai sopportare d’udire un accenno sulla faccenda della zia Dina, se non con il massimo turbamento. La minima allusione bastava a fargli affluire il sangue al viso. Ma quando mio padre indugiava su quella storia in mezzo a una compagnia promiscua, il che l’illustrazione della sua ipotesi frequentemente lo obbligava a fare, quella infausta macchia su uno dei più nobili rami della famiglia faceva sanguinare l’onore e la pudicizia dello zio Tobia, e spesso, in preda alla più forte inquietudine immaginabile, prendeva mio padre in disparte per far le sue rimostranze e per promettergli qualsiasi cosa di questo mondo purché smettesse di raccontare quella storia.
Credo che mio padre nutrisse per lo zio Tobia l’amore e la tenerezza più sinceri che mai fratello abbia avuto per fratello, e avrebbe compiuto qualsiasi cosa al mondo che un fratello avesse potuto ragionevolmente desiderare dal fratello, pur di tranquillizzare lo zio Tobia su questo o su un altro punto. Ma quel fatto esulava dal suo potere.
Mio padre, come vi ho già detto, era un filosofo nell’anima, speculativo, sistematico; e la faccenda della zia Dina era un fatto non meno importante per lui di quanto fosse per Copernico la retrogradazione dei pianeti. Le aberrazioni di Venere nella sua orbita rafforzarono il sistema copernicano, così chiamato dal suo nome; e le aberrazioni della zia Dina nella sua orbita resero lo stesso servizio nel consolidare il sistema di mio padre che, ne sono certo, sarà d’ora in avanti sempre chiamato sistema shandiano dal suo.
Per ogni altro disonore di famiglia, credo che mio padre provasse uno squisito senso di vergogna come qualsiasi altro uomo; e né lui né, oserei dire, Copernico avrebbero divulgato la faccenda nell’uno o nell’altro caso o ne avrebbero lasciato trapelare il minimo indizio nel mondo, se non fosse stato per l’obbligo ch’essi dovevano, così pensavano, alla verità.
«Amicus Plato, — soleva dire mio padre, adattando le parole per lo zio Tobia man mano che procedeva, — Amicus Plato, cioè: Dina era mia zia; sed magis amica veritas [63]: ma la Verità è mia sorella.»
Questa discordanza di umori tra mio padre e mio zio era la fonte di molti diverbi fraterni. L’uno non poteva sopportare che si ricordasse la storia della vergogna di famiglia, e l’altro si può dire non lasciava mai passare giorno senza farvi allusione.
«Per amor di Dio, — gridava lo zio Tobia, — e per amor mio, e per amore di tutti noi, caro fratello Shandy, lascia che questa storia di nostra zia e le sue ceneri riposino in pace. Come puoi, come puoi avere così poca sensibilità e compassione per la reputazione della nostra famiglia?
— Che cos’è la reputazione di una famiglia di fronte a un’ipotesi? — rispondeva mio padre. — Anzi, se arrivi a questo, che cos’è la vita di una famiglia?
— La vita di una famiglia! — replicava lo zio Tobia, buttandosi all’indietro nella sua poltrona e sollevando le braccia,, gli occhi e una gamba.
— Si, la vita! — ripeteva mio padre irremovibile. — Quante migliaia di vite vengono ogni anno gettate via (almeno in tutti i paesi civili) e considerate soltanto come semplice aria a paragone di un’ipotesi.
— Secondo il mio modesto modo di vedere, — ribatteva lo zio Tobia, — ogni caso del genere è un vero e proprio Assassinio, chiunque sia a commetterlo.
— Qui sta il tuo errore, — rimbeccava mio padre. — Infatti, in Foro Scientiae non esiste Assassinio, ma solo Morte, fratello.»
Lo zio Tobia non cercava mai di rispondere a questo con nessun altro genere d’argomento se non quello di fischiettare una mezza dozzina di battute del Lillabullero [64]. Dovete sapere che questo era il mezzo usuale col quale trovavano sfogo le sue passioni, quando una cosa qualsiasi lo urtava o lo stupiva, ma specialmente quando gli veniva esposto qualcosa ch’egli giudicava assurdissimo.
Siccome non uno dei nostri autori di logica né alcuno dei loro commentatori, ch’io ricordi, hanno giudicato opportuno dare un nome a questo particolare genere di argomento, mi prendo qui la libertà di farlo io stesso, per due ragioni. In primo luogo perché, allo scopo di evitare ogni possibile confusione nelle dispute, esso possa essere altrettanto definitivamente distinto da ogni altro genere d’argomento che l’Argumentum ad Verecundiam, ex Absurdo, ex Fortiori [65] o qualsiasi altro argomento. In secondo luogo perché, quando la mia testa giacerà nell’eterno riposo, i figli dei miei figli possano dire che la testa del loro dotto nonno si era affaccendata una volta su questo tema come quella di altre persone; che aveva inventato un nome e lo aveva generosamente gettato nel Tesoro dell’Ars Logica, come uno dei più irrefutabili argomenti dell’intera scienza; e, se il fine della disputa è più ridurre al silenzio che non convincere, potranno aggiungere, se piacerà loro: e per di più anche uno dei migliori argomenti.
Perciò con questo documento ordino e comando perentoriamente ch’esso sia noto e distinto col nome e titolo di Argumentum Fistulatorium, e nessun altro; e che d’ora in poi sia collocato accanto all’Argumentum Baculinum e all’Argumentum ad Crumenam, che sempre sia trattato in futuro nello stesso capitolo.
Quanto all’Argumentum Tripodium, che non è mai usato se non dalla donna contro l’uomo, e all’Argumentum ad Rem [66], di cui, al contrario, viene fatto uso dall’uomo soltanto contro la donna, poiché questi due sono in coscienza bastanti per un’unica lezione e, siccome l’uno è la migliore risposta all’altro, siano essi parimente tenuti a parte e siano trattati in un luogo a sé stante.