Capitolo trentanovesimo
Non vi fu mai nella nostra famiglia una scena più spassosa; e per renderle giustizia su questo punto… E qui mi tolgo il berretto e lo poso sulla tavola accanto al calamaio, allo scopo di rendere più solenne la mia dichiarazione al mondo concernente questo singolo argomento… dichiaro di credere in coscienza (se l’affetto e la parzialità per la mia intelligenza non m’accecano) che mai la mano del supremo Fattore e del primo Ideatore di ogni cosa creò o mise insieme una famiglia (per lo meno in questo suo periodo, di cui mi sono messo a scrivere la storia) in cui i personaggi fossero scelti o messi in contrasto a tale scopo con tanta felicità drammatica com’era la nostra; o nella quale le capacità di offrire simili squisite scenette e il potere di variarle continuamente dal mattino alla sera fossero riposte e affidate con una fiducia tanto sconfinata quanto nella famiglia Shandy.
Non una di queste fu più divertente, dicevo, in questo nostro bizzarro teatro, quanto ciò che frequentemente ebbe origine da questo medesimo capitolo sui nasi lunghi, specialmente quando l’immaginazione di mio padre si eccitava con l’indagine, ed egli non trovava pace finché non eccitava anche quella dello zio Tobia.
Lo zio Tobia si prestava quanto più possibile a questo tentativo di mio padre; e, con infinita pazienza, restava seduto per ore intere a fumare la pipa, mentre mio padre faceva esperimenti sulla sua testa cercando ogni via accessibile per farvi penetrare le soluzioni del Prignitz e dello Scroderus.
Non saprei dire se queste fossero di là dalla ragione dello zio Tobia o incompatibili con essa, oppure se il suo cervello fosse come legna umida su cui nessuna scintilla avrebbe fatto presa, o fosse così pieno di trincee sotterranee, di scavi, di blinde, di cortine e simili interdizioni militari al suo veder chiaramente nelle dottrine del Prignitz e dello Scroderus; gli scolastici, gli sguatteri, gli anatomisti e gli ingegneri si azzuffino al riguardo tra di loro.
Non dubito minimamente che in questa faccenda fu una disgrazia che mio padre dovesse tradurre ogni parola a beneficio dello zio Tobia e rendere il latino dello Slawkenbergius del quale, siccome egli non era molto padrone, la traduzione non riusciva sempre delle più limpide, e in genere lo era meno proprio quando ce n’era maggior bisogno. Ciò naturalmente diede adito a una seconda disgrazia: nei più appassionati parossismi del suo zelo per aprire gli occhi allo zio Tobia, le idee di mio padre correvano tanto più in fretta della sua traduzione di quanto la traduzione mettesse in moto quelle dello zio Tobia; né le une né l’altra contribuivano molto alla perspicuità della lettura di mio padre.