118.
Ottobre 2007
Abby raggiunse la vetta della collina. Alla sua destra c’era una distesa erbosa rotta soltanto da alcuni gruppi di cespugli e da un denso boschetto di alberi bassi e che terminava con il bianco gessoso delle scogliere in un precipizio verticale sul canale della Manica. Uno dei più ripidi, alti dirupi di tutta la Gran Bretagna. Alla sua sinistra c’era una vista pressoché infinita su miglia e miglia di aperta campagna. Abby riusciva a vedere la strada che serpeggiava perdendosi in lontananza. L’asfalto era molto scuro, solcato al centro da linee di un bianco abbagliante. Erano così immacolate che sembravano essere state dipinte quello stesso giorno, apposta per lei.
In precedenza il detective Branson le aveva detto che Ricky aveva commesso un errore scegliendo quel posto, ma in quel momento Abby non riusciva proprio a capire quale. Anzi, le sembrava una decisione molto astuta. Ovunque si trovasse, Ricky sarebbe stato in grado di vedere qualsiasi cosa si muovesse in qualsiasi direzione.
Forse il detective gliel’aveva detto soltanto per rassicurarla. E, in effetti, in quel momento Abby ne aveva davvero bisogno.
Poteva vedere un edificio a circa mezzo chilometro alla sua sinistra, situato quasi nel punto più alto del terreno, con quella che sembrava l’insegna di un pub o di un albergo montata su un palo. Avvicinandosi, iniziò a distinguere il tetto di tegole rosse e le pareti di pietra. Poi riuscì a leggere l’insegna.
BEACHY HEAD HOTEL.
Entra nel parcheggio del Beachy Head Hotel e aspetta che io mi metta in contatto con te, erano state le sue istruzioni. Esattamente alle dieci e mezza.
Il posto sembrava deserto. C’era una pensilina di plexiglass vicino a una fermata dell’autobus con un cartello bianco e azzurro posto di fronte, che recitava a caratteri cubitali: I SAMARITANI, SEMPRE PRESENTI GIORNO E NOTTE, e due numeri di telefono. Appena oltre, un furgone dei gelati giallo e arancione, con le saracinesche del bancone sollevate, e poco più avanti un camioncino della British Telecom con due uomini in elmetto e giubbotto catarifrangente intenti a lavorare a un ripetitore radio. Vicino all’ingresso posteriore dell’albergo erano parcheggiate due utilitarie: Abby immaginò che fossero di proprietà degli impiegati dell’hotel.
Svoltò a sinistra e si fermò in fondo al parcheggio, quindi spense il motore. Qualche istante dopo, il suo cellulare squillò.
“Bene”, disse Ricky. “Ben fatto! Una bella strada panoramica, non trovi?”
La macchina era scossa dal vento.
“Dove sei?” disse Abby, guardandosi intorno in tutte le direzioni. “Dov’è mia madre?”
“Dove sono i miei francobolli?”
“Li ho con me.”
“E io ho tua madre. Si sta godendo il panorama.”
“Voglio vederla.”
“E io voglio vedere i francobolli.”
“Prima voglio essere sicura che lei stia bene.”
“Te la passo al telefono.”
Ci fu un breve silenzio. Abby sentiva l’ululato del vento. Poi, finalmente, la voce di sua madre, debole e fioca come quella di un fantasma.
“Abby?”
“Mamma!”
“Sei tu, Abby?” Sua madre cominciò a piangere. “Ti prego, ti prego, Abby. Per favore.”
“Sto venendo a prenderti, mamma. Ti voglio bene.”
“Per favore, dammi le mie pillole. Devo avere le mie pillole. Ti prego, Abby, perché non vuoi darmi le mie medicine?”
Abby provò una stretta al cuore. Poi Ricky tornò al telefono.
“Metti in moto. Io resto in linea.”
Abby avviò l’auto.
“Accelera. Voglio sentire il rumore del motore.”
Abby fece ciò che le era stato detto. Il motore diesel rombò fragorosamente.
“Adesso esci dal parcheggio e svolta a destra. Dopo cinquanta metri vedrai un sentiero sulla sinistra che sale sulla collina. Prendilo.”
Abby svoltò a sinistra, sentendo la macchina sussultare sul fondo sconnesso. Le ruote slittarono per un istante perdendo aderenza sulla ghiaia e sul fango, poi montarono sull’erba. Ora capiva perché Ricky aveva insistito tanto che noleggiasse un fuoristrada. Anche se ancora non si spiegava perché avesse puntualizzato che doveva trattarsi di un diesel. Economizzare sul carburante non doveva essere in cima ai suoi pensieri, in quel momento. Sulla destra vide un segnale di pericolo, che recitava: ATTENZIONE DIRUPO.
“Vedi una macchia di alberi e di cespugli di fronte a te?” C’era un boschetto fitto a circa cento metri di distanza, proprio al limitare di un declivio che portava al ciglio della scogliera. I cespugli e gli alberi erano piegati dal vento.
“Sì.”
“Ferma la macchina.”
Abby si fermò.
“Metti il freno a mano. Lascia il motore acceso. Continua a guardare. Siamo qui dentro. Ho le ruote posteriori proprio sul bordo della scogliera. Se fai anche solo una cosa che non mi piace, la butto nel furgone e mollo il freno a mano. Ci siamo capiti?”
La gola di Abby era tanto serrata che dovette sforzarsi per farsi uscire la voce. “Sì.”
“Non ho sentito.”
“Ho detto sì.”
Udì un rombo, come se il vento soffiasse nel telefono. Poi un tonfo. Ci furono dei movimenti tra gli alberi. Prima comparve Ricky, con il berretto da baseball e la barba e con indosso un pesante giaccone di lana. Abby provò un tuffo al cuore vedendo la sagoma minuscola, fragile di sua madre, ancora avvolta nella vestaglia rosa che indossava quando l’aveva vista l’ultima volta.
Il vento le scuoteva la vestaglia e le scompigliava i sottili capelli bianchi, che le sventolavano dietro la nuca come il fumo di una sigaretta. Appariva malferma sulle gambe, e Ricky la teneva per un braccio per reggerla in piedi.
Abby fissava attraverso il parabrezza, gli occhi offuscati da un velo di lacrime. Avrebbe fatto di tutto, qualsiasi cosa, pur di avere sua madre tra le braccia in quel momento.
E per uccidere Ricky.
Voleva premere l’acceleratore e investirlo, ridurlo in poltiglia.
Stavano scomparendo di nuovo tra gli alberi. Ricky spingeva sua madre con violenza, e lei barcollò, camminando e inciampando, nella macchia di vegetazione. I cespugli si stavano chiudendo intorno a loro come un banco di nebbia.
Abby afferrò la maniglia della portiera, quasi incapace di impedirsi di uscire dalla macchina e di mettersi a correre verso di loro. Ma si trattenne, spaventata dalle minacce di Ricky e ora sempre più convinta che lui avrebbe ucciso sua madre, e che gli sarebbe anche piaciuto.
Forse, nella sua mente contorta, ucciderla aveva ancora più valore che riprendersi i francobolli.
Dov’erano il sergente Branson e la sua squadra? Dovevano essere lì vicino. Lui glielo aveva garantito. Certo, erano ben nascosti, pensò Abby. Non si vedeva anima viva.
Ma se non li vedeva lei, c’era da sperare che nemmeno Ricky riuscisse a scovarli.
Comunque erano in ascolto. Dovevano aver sentito cosa le aveva detto. Avevano sentito le sue minacce. Non si sarebbero precipitati nel boschetto per cercare di arrestarlo, giusto? Non potevano correre il rischio che lui facesse cadere il furgone dalla scogliera.
Non per una manciata di francobolli del cazzo. O no?
La voce di Ricky tornò a farsi sentire. “Soddisfatta?”
“Posso portarla via, adesso, per favore, Ricky? Ho i francobolli.”
“Ora ti spiego cosa devi fare, Abby. Ascolta attentamente, perché te lo dirò soltanto una volta, okay?”
“Sì.”
“Lascia il motore acceso e il telefono in funzione, come adesso, in macchina, così posso sentire il motore. Scendi dall’auto senza chiudere la portiera. Porta con te i francobolli e fai venti passi verso di me, poi ti fermi. Verrò io verso di te. Dopo che mi avrai consegnato i francobolli, prenderò la tua macchina. Tu entrerai nel furgone. Tua madre si trova lì, e sta bene. Ora viene il punto in cui devi fare molta, molta attenzione. Mi stai ascoltando?”
“Sì.”
“Quando arriverai al furgone io avrò già dato un’occhiata ai francobolli. Se non mi piace ciò che vedo, guido dritto verso il furgone e lo spingo oltre il bordo della scogliera. Siamo intesi?”
“Sì. Ti consegnerò tutto ciò che ti spetta.”
“Tanto meglio”, disse lui. “Allora non ci saranno problemi.”
Senza muovere troppo la testa, nel caso lui la stesse osservando con un binocolo, Abby si guardò intorno per quanto possibile. Ma non vide altro che erba battuta dal vento, una piccola struttura di mattoni – un punto di osservazione di qualche tipo – che conteneva alcune panchine vuote, e qualche cespuglio solitario, nessuno di essi sufficientemente grande per nascondere un essere umano. Dov’erano gli uomini di Branson?
Dopo un paio di secondi, udì di nuovo la voce di Ricky. “Adesso scendi dalla macchina e fai quello che ti ho detto.”
Abby aprì la portiera, ma dovette lottare contro il vento. “La portiera non resterà aperta!” gridò verso l’altoparlante del vivavoce, in preda al panico.
“Bloccala con qualcosa.”
“E con cosa?”
“Cristo, sei veramente stupida! Dev’esserci qualcosa in macchina. Un manuale. La cartella dell’autonoleggio. Voglio vederti lasciare aperta quella cazzo di portiera. Ti sto guardando.”
Abby prese la busta contenente i documenti dell’autonoleggio dalla tasca laterale, spalancò la portiera e agitò i documenti nell’aria in modo che lui potesse vederli. Poi scese dal fuoristrada. Il vento era così forte che una raffica la mandò quasi a gambe all’aria. Le strappò la portiera dalle mani, facendola sbattere. Abby la spalancò di nuovo, piegò la busta in due per creare un cuneo più spesso e resistente, afferrò la busta imbottita con i francobolli e chiuse la porta fin dove il cuneo di fortuna glielo permetteva.
Poi, con il vento che le tirava dolorosamente i capelli e le faceva male alle orecchie, infuriando sui suoi vestiti, compì venti passi esitanti verso il boschetto, con lo sguardo che si muoveva frenetico in ogni direzione, la bocca secca, spaventata a morte ma al tempo stesso bruciante di rabbia. Non riusciva ancora a vedere nessuno.
Tranne Ricky, che ora stava camminando verso di lei.
Allungò una mano per prendere la busta imbottita, le labbra incurvate in un sorriso truce di soddisfazione. “Era ora, cazzo”, disse, strappandogliela di mano con avidità.
Mentre lo faceva, Abby, sbrigliando l’odio accumulato, alzò il piede destro e gli sferrò un calcio tra le gambe, con tutta la forza che aveva in corpo. Tanto che l’impatto le provocò un dolore infernale.