1.
Se Ronnie Wilson avesse saputo, quando si svegliò, che nel giro di un paio d’ore sarebbe morto, avrebbe pianificato la sua giornata in modo un po’ diverso.
Tanto per cominciare, non si sarebbe preso la briga di farsi la barba. O non avrebbe perso così tanti di quei suoi ultimi preziosi minuti a mettersi il gel nei capelli e poi ad arruffarseli fino a esserne pienamente soddisfatto. Né avrebbe passato così tanto tempo a lucidarsi le scarpe, o a sistemarsi con cura il nodo della costosa cravatta di seta. E, sicuro come l’oro, non avrebbe pagato la somma esorbitante di diciotto dollari – che proprio non poteva permettersi – per farsi stirare il vestito dalla lavanderia dell’albergo.
Dire che era beatamente inconsapevole del destino che lo attendeva sarebbe stata un’esagerazione. Ogni forma di gioia era assente dal novero delle sue emozioni da così tanto tempo che Ronnie non aveva più la minima idea di cosa potesse essere la beatitudine. Non sperimentava più l’estasi nemmeno negli istanti sfuggenti dell’orgasmo, nelle rare occasioni in cui lui e Lorraine facevano ancora l’amore.
Era come se le sue palle fossero diventate insensibili come tutto il resto.
In effetti, negli ultimi tempi – e a volte con grande imbarazzo di Lorraine – quando gli chiedevano come stava, aveva preso l’abitudine di rispondere con una breve scrollata di spalle e le parole: “La mia vita è una merda.”
Anche la camera che aveva preso era una merda. Era così piccola che se fosse caduto non sarebbe riuscito nemmeno a colpire il pavimento. Era la stanza più a buon mercato che il W aveva, ma almeno l’indirizzo lo aiutava a mantenere le apparenze. Se stavi in un hotel W a Manhattan, eri qualcuno. Anche se dormivi nel ripostiglio delle scope.
Ronnie sapeva di doversi mettere in una disposizione d’animo – e un umore – più positiva. La gente reagisce alle vibrazioni che emani, in particolare quando gli stai chiedendo dei soldi. Nessuno darebbe soldi a un perdente, nemmeno un vecchio amico – almeno, non la quantità di soldi di cui Ronnie aveva bisogno. E di sicuro non quel vecchio amico in particolare.
Guardò dalla finestra per controllare che tempo c’era, stirando il collo per guardare oltre lo strapiombo dei palazzi di fronte all’albergo sulla Trentanovesima Strada finché non riuscì a intravedere lo stretto solco di cielo. Rendersi conto che era una mattina di sole non fece nulla per sollevargli il morale. Gli diede soltanto la sensazione che tutte le nuvole scomparse da quel cielo terso si fossero addensate dentro il suo cuore.
Il suo finto orologio Bulgari gli disse che erano le sette e quarantatre del mattino. L’aveva comprato su Internet per quaranta sterline ma, ehi, chi si sarebbe accorto che non era originale? Aveva imparato molto tempo prima che gli orologi costosi lanciavano un messaggio chiaro alle persone che stavi cercando di impressionare: se un dettaglio come l’ora era così importante per te da farti comprare uno degli orologi migliori del mondo, allora forse ti sarebbe importato allo stesso modo dei soldi che stavano per affidarti. Le apparenze non erano tutto, ma certo avevano il loro peso.
Quindi, le sette e quarantatre. Comincia lo spettacolo.
Prese la sua ventiquattrore Louis Vuitton – anch’essa fasulla – la posò sopra il trolley e uscì dalla stanza, tirandosi dietro il bagaglio. Quando uscì dall’ascensore al pianterreno, oltrepassò rapidamente il banco della reception. Le sue carte di credito erano così al limite che probabilmente non aveva fondi a sufficienza per pagare la fattura dell’albergo, ma di questo si sarebbe preoccupato più tardi. La sua BMW – un gioiellino di decapottabile blu con cui a Lorraine piaceva tanto andare in giro per mettersi in mostra con le sue amiche – era in procinto di essere sequestrata, e la banca che gli aveva concesso il mutuo stava per riprendersi la casa. L’incontro di oggi, pensò cupamente, era la sua ultima spiaggia. Una promessa che stava per riscuotere. Una promessa vecchia di dieci anni.
Sperava solo che non fosse stata dimenticata.
* * *
Seduto in metropolitana, con le borse tra le ginocchia, Ronnie era consapevole che qualcosa era andato storto nella sua vita, ma non riusciva a capire con esattezza cosa. Molti dei suoi compagni di scuola avevano avuto enorme successo, lasciandolo ad annaspare sempre più disperatamente nella loro scia. Consulenti finanziari, agenti immobiliari, commercialisti, avvocati. Avevano enormi case del cazzo, mogli-trofeo, bambini perfetti. E lui? Lui che cosa aveva?
Quella nevrotica di Lorraine che spendeva soldi che lui non possedeva in infiniti trattamenti di bellezza dei quali in realtà non aveva bisogno, in abiti firmati che in realtà non potevano permettersi, e piluccando foglie di lattuga e acqua minerale nel corso di pranzi assurdamente costosi con le sue amiche anoressiche – tutte molto più ricche di loro – nell’ultimo ristorante-alla-moda-della-settimana. E, nonostante una fortuna spesa in cure per la fertilità, Lorraine non era stata ancora capace di sfornare il figlio che lui desiderava così tanto. L’unica spesa di Lorraine che lui aveva approvato davvero era stata quella per rifarsi le tette.
Ma ovviamente Ronnie era troppo orgoglioso per ammettere con Lorraine il casino in cui si trovava. Ottimista nato, sperava sempre che una soluzione lo aspettasse proprio dietro l’angolo. Come un camaleonte, Ronnie si mimetizzava alla perfezione nel suo ambiente. Prima da venditore di macchine usate, poi da commerciante di antiquariato e agente immobiliare, aveva sempre un aspetto impeccabile e spremeva al meglio il dono della parlantina che, sfortunatamente, aveva assai più sviluppato dell’acume finanziario. Quando l’agenzia immobiliare era andata a gambe all’aria, Ronnie era passato al volo alla speculazione edilizia dove, in jeans e blazer blu, era davvero convincente. Poi, quando le banche avevano tolto i fondi al suo progetto di venti nuovi edifici residenziali, arenatosi per difetti nella pianificazione, si era reinventato un’altra volta come consulente finanziario per ricchi. Anche quell’iniziativa era fallita.
Ora era lì nella speranza di riuscire a convincere il suo vecchio amico Donald Hatcook di conoscere il segreto della nuova gallina dalle uova d’oro: il biodiesel. Si vociferava che Donald avesse fatto più o meno un miliardo di dollari con i derivati – qualsiasi cosa fossero – e ne aveva persi soltanto un paio di centinaia di migliaia nella speculazione edilizia di Ronnie dieci anni prima. Rassicurando l’amico di non serbargli rancore per quel fallimento, aveva promesso a Ronnie che un giorno l’avrebbe finanziato di nuovo.
Certo, Bill Gates e tutti gli altri imprenditori del pianeta stavano cercando di entrare nel mercato, nuovo e rispettoso dell’ambiente, dei biocarburanti – e avevano i soldi per riuscirci – ma Ronnie era convinto di aver identificato una nicchia. Tutto ciò che doveva fare quella mattina era convincere Donald. Donald era un tipo sveglio, avrebbe visto l’opportunità. Avrebbe accettato. Sarebbe stata – come dicevano a New York – una schiacciata a canestro.
In realtà, più il treno si avvicinava al centro della città mentre lui ripassava mentalmente il discorso che avrebbe fatto a Donald, più Ronnie si sentiva sicuro di farcela. Aveva la sensazione di trasformarsi nel personaggio interpretato da Michael Douglas in Wall Street: Gordon Gekko. E di sicuro il look ce l’aveva. Proprio come l’altra decina di operatori di Wall Street seduti nella carrozza sobbalzante insieme a lui. Se anche uno solo di loro aveva la metà dei suoi problemi, di certo lo teneva ben nascosto. Avevano tutti un’aria così maledettamente sicura. E, se si fossero presi la briga di guardarlo, avrebbero visto un uomo alto e magro, di bell’aspetto e con i capelli ben pettinati che aveva un’aria altrettanto sicura di sé.
Si dice che se non ce la fai entro i quarant’anni, non ce la farai mai. Lui ne avrebbe compiuti quarantatre di lì a tre settimane.
Uscì nell’assolata mattina di Manhattan e controllò la sua posizione sulla cartina che gli aveva dato il portiere dell’albergo la sera prima. Poi guardò l’orologio: le otto e dieci. Dalle sue precedenti esperienze nei grattacieli di New York, sapeva di doversi concedere almeno un buon quarto d’ora per raggiungere l’ufficio di Donald una volta arrivato al palazzo che lo ospitava. E da lì erano cinque minuti buoni a piedi, gli aveva detto il portiere – e questo sempre che non si perdesse.
Passò davanti a un cartello che lo informò che si trovava in Wall Street, oltrepassò un negozio Jamba Juice alla sua destra e un altro che offriva Sartoria e modifiche di alta qualità, poi entrò nell’affollatissimo Downtown Deli.
Il locale odorava di caffè e di uova fritte. Si sedette su uno sgabello di vinile rosso e ordinò una spremuta d’arancia, un caffelatte, uova strapazzate con pancetta e pane tostato. Mentre aspettava che lo servissero, ripassò ancora una volta il suo piano e poi, guardando l’orologio, calcolò mentalmente la differenza di orario tra New York e Brighton.
L’Inghilterra era cinque ore avanti. Lorraine doveva essere a pranzo. La chiamò rapidamente sul cellulare e le disse che la amava. Lei gli augurò buona fortuna. Le donne erano facili da compiacere: bastavano un paio di moine di tanto in tanto, due righe di poesia e uno o due gioielli costosi – ma non troppo spesso.
Venti minuti dopo, mentre pagava il conto, udì uno schianto enorme in lontananza. Un tipo, sullo sgabello accanto al suo, disse: “Gesù, e quello che cazzo è stato?”
Ronnie prese il resto e lasciò una mancia decente, poi uscì in strada per proseguire il suo viaggio verso l’ufficio di Donald Hatcook che, stando alle informazioni che lui gli aveva inviato via e-mail, si trovava all’ottantasettesimo piano della Torre Sud del World Trade Center.
Erano le otto e quarantasette del mattino di martedì 11 settembre 2001.