18.
11 settembre 2001
Ronnie Wilson aveva perso la cognizione del tempo. Era immobile, come ipnotizzato, reggendosi alla maniglia del trolley come a una stampella, mentre davanti ai suoi occhi succedeva qualcosa che non riusciva a comprendere.
Oggetti di ogni genere cadevano dall’alto sulla piazza e sulle strade sottostanti. Piovevano dal cielo. Un diluvio senza fine di pezzi di mobili, divisori di uffici, scrivanie, poltroncine, vetro, fotografie incorniciate, divani, schermi di computer, tastiere, schedari, cestini della carta straccia, tazze del water, lavandini, fogli di carta simili a coriandoli rettangolari. E corpi. Corpi che precipitavano. Uomini e donne che erano ancora vivi in aria e un istante dopo esplodevano e si disintegravano all’impatto con il terreno. Ronnie avrebbe voluto voltarsi dall’altra parte, mettersi a gridare, scappare via, ma era come se un enorme dito di piombo gli premesse sulla testa, obbligandolo a restare immobile a osservare in un mutismo stordito.
Gli sembrava di assistere alla fine del mondo.
Pareva che ogni pompiere e ogni poliziotto di New York stesse correndo dentro le Torri Gemelle. Una fiumana senza fine in entrata, che oltrepassava controcorrente le donne e gli uomini sgomenti che ne uscivano, zoppicando, barcollando fuori come venissero da un altro mondo, ricoperti di polvere, con gli abiti stracciati, alcuni con il volto o le braccia imbrattati di sangue e le espressioni contorte per lo shock. Molti di loro avevano il cellulare premuto all’orecchio.
Poi venne il terremoto. All’inizio fu soltanto una lieve vibrazione sotto i piedi, poi acquistò vigore e violenza, tanto che Ronnie dovette aggrapparsi alla maniglia del trolley per non perdere l’equilibrio. D’un tratto, gli zombie che stavano uscendo dalla Torre Sud sembrarono riscuotersi e accelerare il passo.
Tutti cominciarono a correre.
Ronnie sollevò lo sguardo e vide perché. Ma per un attimo pensò che si trattasse di un errore. Non era possibile! Era un’illusione ottica. Doveva esserlo.
L’intero grattacielo si stava accasciando su se stesso, come un castello di carte, tranne che...
Una macchina della polizia a poca distanza da lui venne appiattita all’improvviso.
Poi la stessa sorte toccò a un camion dei pompieri.
Una nube di polvere simile a una tempesta di sabbia del deserto iniziò a rotolare verso di lui. Ronnie udì un rombo di tuono. Un rumore assordante, cupo, infinito.
Un intero fiume di persone scomparve sotto i calcinacci.
La nube grigio-scuro si stava sollevando nell’aria come uno sciame di insetti furiosi.
Il rombo di tuono gli spaccava i timpani.
Non era possibile.
La torre stava crollando.
La gente si mise a correre a perdifiato. Una donna perse una scarpa e continuò a zoppicare su un piede solo, poi si tolse anche l’altra. L’aria venne squarciata da un suono terribile, che sovrastò le sirene, come se un mostro gigantesco stesse lacerando il mondo in due con i suoi artigli.
Stavano correndo accanto a lui. Una persona, poi un’altra e un’altra ancora, le facce distorte in maschere di panico. Alcune erano maschere bianche come farina, altre sprizzavano lacrime come annaffiatoi, altre ancora grondavano sangue e schizzavano schegge di vetro. Ballerini macabri in un grottesco carnevale mattutino.
Improvvisamente una BMW balzò in aria, a metri e metri di altezza, e ricadde sul tetto priva della parte anteriore. Poi Ronnie vide levarsi una nube nera che puntò verso di lui come un’immensa onda di marea.
Tenendo stretta la maniglia della valigia, si voltò e seguì gli altri. Senza sapere dove stava andando, iniziò a correre, a mettere un piede davanti all’altro, trascinandosi dietro il trolley, senza nemmeno sapere se la sua ventiquattrore era ancora lì. Correva per mettere distanza dalla nube nera, dalla torre che crollava alle sue spalle, rombandogli nelle orecchie, nel cuore, nell’animo.
Correva per la sua stessa vita.