111.

Ottobre 2007

L’aereo atterrò a Gatwick alle cinque e quarantacinque, con venticinque minuti di anticipo grazie a un vento di coda, come riferì con orgoglio il pilota. Roy Grace si sentiva di merda. Beveva sempre troppo nei voli notturni, nella speranza che l’alcol lo mettesse fuori combattimento. Funzionava, ma solo per poco e poi, come quella mattina, gli lasciava un mal di testa e una sete tremendi. Peggiorati dalla colazione rivoltante che gli pesava sullo stomaco.

Se la sua borsa fosse uscita alla svelta dal nastro portabagagli, pensava, avrebbe forse avuto il tempo di correre a casa, farsi una doccia veloce e cambiarsi d’abito prima di andare al briefing mattutino dell’Operazione Dingo. Ma la sua fortuna era rimasta a New York. L’aereo poteva anche essere atterrato in anticipo, ma il ritardo al nastro portabagagli cancellò in un attimo quel vantaggio. Erano le sette meno venti quando riuscì a trascinare il bagaglio alla dogana e a dirigersi verso le navette per il parcheggio a lungo termine. In piedi alla fermata, nell’aria secca ma fredda del mattino, compose il numero di Glenn Branson per farsi aggiornare sulla situazione.

Il suo amico aveva una voce strana. “Roy”, disse, “vuoi passare da casa?”

“No, vengo lì direttamente. Cosa c’è di nuovo?”

Il sergente Branson lo mise al corrente degli sviluppi, facendogli per prima cosa un rapporto sui progressi di Norman Potting a Sydney. Le informazioni sui passaporti usati da David Nelson e Margaret Nelson erano venute alla luce durante la giornata, ed entrambi i documenti si erano rivelati falsi. E Nelson era sparito dal suo appartamento. Potting e Nicholl ora stavano andando porta a porta da tutti i vicini di Nelson, nella speranza di raccogliere altre informazioni sul suo stile di vita e sulle sue amicizie.

Poi Branson passò a Katherine Jennings. La giovane donna stava aspettando una chiamata da Skeggs per concordare l’ora e il luogo in cui si sarebbero incontrati ed effettuare lo scambio tra i francobolli e la madre di lei. Branson gli disse che c’erano due squadre di sorveglianza pronte all’azione, e fino a venti agenti a disposizione in caso di bisogno.

“E che mi dici delle squadre armate?” domandò Grace.

“Non abbiamo motivo di credere che Skeggs sia armato”, rispose Branson. “Se la situazione dovesse cambiare, le coinvolgeremo.”

“Stai bene, amico?” domandò Grace quando Branson ebbe finito. “Sembri un po’ stressato. Ari?”

Branson esitò. “In realtà è per te che sono preoccupato.”

“Per me?”

“Be’, più che altro per casa tua.”

Grace si allarmò. “Che cosa vuoi dire? Sei stato da me ieri notte?”

“Sì, grazie. L’ho apprezzato, davvero.”

Grace si domandò se il suo amico avesse rotto qualcosa. Il suo prezioso juke-box antico con cui Glenn armeggiava di continuo, magari.

“Potrebbe anche non essere niente, Roy, ma uscendo, stamattina, ho visto – almeno, potrei giurare di aver visto – Joan Major che passava nella tua via. Era ancora buio, quindi potrei anche sbagliarmi.”

“Joan Major?”

“Sì. Ha una di quelle strane piccole Fiat – non se ne vedono molte, in giro.”

Glenn Branson aveva una straordinaria capacità di osservazione. Se diceva di aver visto una cosa, allora era quasi sicuramente così. Grace salì sull’autobus, tenendosi il cellulare all’orecchio. Strano che Glenn avesse visto l’archeologa forense passare nella sua via, ma non era poi così importante.

“Forse i figli studiano in zona, e li stava accompagnando a scuola?”

“Ne dubito. Abita a Burgess Hill. Magari doveva consegnarti qualcosa?”

“Non ha nessun senso.”

“Oppure le è venuta un’idea che voleva discutere con te di persona.”

“A che ora te ne sei andato?”

“Più o meno alle sette meno un quarto.”

“Non si va a casa di qualcuno a quell’ora del mattino per fare due chiacchiere. Se è urgente, si usa il telefono.”

“Già, immagino di sì.”

Grace gli disse che sperava di arrivare in ufficio in tempo per il briefing, ma quando raggiunse la sua macchina decise che, dato che il traffico dell’ora di punta non sembrava troppo intenso, avrebbe prima fatto un salto a casa. C’era qualcosa che non gli quadrava, anche se non avrebbe saputo dire con precisione che cosa.

Doppia identità
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