30.
11 settembre 2001
Il pavimento stava tremando. Le matrici delle chiavi, appese a decine sui ganci lungo la parete del negozio, tintinnavano senza sosta. Diverse latte di vernice caddero da uno scaffale. Il coperchio di una latta venne via quando colpì il pavimento, riversando intorno tempera color magnolia. Una scatola di cartone rotolò, mandando viti d’ottone a contorcersi come vermi sul linoleum.
Era buio nell’angusto negozio di ferramenta a poche centinaia di metri dal World Trade Center in cui Ronnie aveva trovato rifugio seguendo il poliziotto più alto. Alcuni minuti prima era andata via la luce. Ora era accesa soltanto una luce di emergenza a batterie. Un tornado di polvere infuriava oltre le vetrine, in certi momenti più scuro della notte.
Una donna senza scarpe con un vestito di marca, che sembrava non essere mai stata in un negozio di ferramenta in vita sua, stava singhiozzando. Una sagoma spettrale in tuta marrone, capelli bianchi raccolti in una coda di cavallo, era dietro il bancone che correva lungo tutto il negozio, osservando l’oscurità in un silenzio tetro e disperato.
Ronnie teneva ancora stretta la maniglia della valigia. Miracolosamente, la ventiquattrore era ancora al suo posto, sopra al trolley.
Fuori dal negozio, una macchina della polizia passò strisciando sul tettuccio e si fermò. Le portiere erano aperte e la luce di cortesia era accesa. L’interno era vuoto: il microfono della radio pendeva dal cavo a spirale.
D’improvviso, nella parete alla sua sinistra si formò una crepa e un’intera scaffalatura, colma di scatole di pennelli di tutte le dimensioni, si abbatté a terra. La donna singhiozzante si mise a strillare.
Ronnie fece un passo indietro, premendosi contro il bancone e pensando freneticamente. Una volta si era ritrovato in un ristorante a Los Angeles durante un lieve terremoto. L’uomo con cui stava pranzando gli aveva detto che le porte erano i punti più solidi degli edifici. Se il palazzo fosse crollato, le migliori possibilità di sopravvivenza erano sotto le porte.
Si diresse alla porta.
“Io non uscirei adesso, se fossi in te, amico”, gli disse il poliziotto.
In quel momento, un’enorme valanga di calcinacci e di vetri cadde proprio davanti alla vetrina, seppellendo l’auto della polizia. L’allarme del negozio scattò, lanciando un ululato assordante. L’uomo con la coda di cavallo scomparve per un attimo e il suono cessò, così come il tintinnio delle chiavi.
Il pavimento aveva smesso di tremare.
Ci fu un lunghissimo silenzio. Fuori, con sorprendente rapidità, la tempesta di polvere cominciò a diradarsi. Come se stesse spuntando l’alba.
Ronnie aprì la porta. “Fossi in te non uscirei... capisci quello che dico?” ripeté il poliziotto.
Ronnie lo guardò, esitante.
Poi spinse la porta e uscì all’aperto, trascinandosi dietro il bagaglio.
Uscì nel silenzio più assoluto. Il silenzio di una nevicata notturna. Neve grigia dappertutto.
Silenzio grigio.
Poi cominciò a udire i suoni. Allarmi antincendio. Antifurti. Urla umane. Sirene di ambulanze e di autopompe. Elicotteri.
Sagome grigie che lo oltrepassavano. Una fila infinita di donne e uomini con i volti svuotati dallo shock. Alcuni camminavano, altri correvano. Altri premevano freneticamente i pulsanti dei cellulari.
Ronnie li seguì, barcollando alla cieca nella nebbia che gli pungeva gli occhi e gli tappava la bocca e le narici.
Li seguì e basta. Tirandosi dietro le valigie. Li seguì, tenendo il passo. Le travi di un ponte si innalzavano a destra e a sinistra. Il Ponte di Brooklyn, pensò facendo ricorso alla sua scarsa conoscenza di New York. Corse e barcollò sul ponte, attraversando il fiume. Un ponte infinito che attraversava un inferno grigio e soffocante.
Ronnie perse la cognizione del tempo. Perse anche il senso dell’orientamento. Si limitava a seguire gli spettri grigi. Improvvisamente, per un lungo istante, sentì odore di sale, subito soffocato dalla puzza di bruciato – carburante di aerei, vernice, gomma. Un altro aereo poteva arrivare in qualsiasi momento.
La realtà di ciò che era accaduto stava cominciando a colpirlo. Sperava che Donald Hatcook stesse bene. Ma se non fosse stato così? Il piano disperato che aveva escogitato era fantastico. Potevano fare letteralmente milioni di dollari nei prossimi cinque anni. Fottuti milioni! Ma, se Donald era morto, allora cosa restava da fare?
Si vedevano delle sagome in lontananza. La linea frastagliata dei grattacieli. Brooklyn. Non era mai stato a Brooklyn in vita sua, l’aveva soltanto vista dall’altra parte del fiume. Si avvicinava a ogni passo. Anche l’aria si era fatta più respirabile. I tratti di aria salmastra, marina, erano più prolungati ora. La nebbia si dissipava.
E d’un tratto si ritrovò su una discesa che terminava dall’altra parte del ponte. Si fermò e si voltò a guardare. Pensò subito a qualcosa di biblico, un ricordo vago della moglie di Lot, che guardandosi indietro si era trasformata in una statua di sale. Ecco a cosa assomigliavano le persone che lo oltrepassavano in una processione senza fine. A statue di sale.
Si aggrappò con una mano a una balaustra metallica e guardò dietro di sé. La luce del sole scintillava sull’acqua del fiume sotto di lui. Miriadi di chiazze sfavillanti di bianco che danzavano sulle onde. E, oltre, l’intera Manhattan sembrava in fiamme. I grattacieli erano in parte avvolti da un sudario di nubi nere, marroni, bianche e grigie che si innalzavano gonfiandosi nel cielo.
Stava tremando in modo incontrollabile. Aveva bisogno di raccogliere le idee. Si frugò nelle tasche, trovò il pacchetto di Marlboro e ne accese una. Fece quattro boccate in rapida successione, ma il fumo aveva un sapore orribile, probabilmente a causa di tutto quello che aveva in gola, e Ronnie buttò la sigaretta di sotto, nel fiume, sentendosi stordito, con la gola ancora più secca.
Si riunì alla processione di spettri, seguendoli su una strada dove sembrarono disperdersi in direzioni diverse. Si fermò di nuovo, colpito da un pensiero improvviso, e mentre quell’idea si faceva strada nella sua testa, Ronnie desiderò d’un tratto un po’ di pace e di silenzio. Cambiò direzione e prese una via laterale deserta. Oltrepassò una fila di palazzi di uffici, con le ruote del trolley che continuavano a sussultare dietro di lui.
Completamente assorto nei suoi pensieri, percorse per un tempo indefinito le strade deserte prima di ritrovarsi sulla rampa di accesso di un’autostrada. A poca distanza da lui c’era un grosso cartello pubblicitario che si ergeva verso il cielo su cui spiccava in rosso la parola KENTILE. Poi udì il rombo di un motore e, un attimo dopo, un grosso pick-up azzurro a quattro porte accostò di fianco a lui.
Il finestrino si abbassò e un uomo con una camicia a quadri e un berretto dei New York Yankees guardò fuori. “Vuoi un passaggio, amico?”
Ronnie si fermò, sorpreso e confuso dalla domanda. Sudava come un maiale. Un passaggio? Voleva un passaggio? E per dove?
Non ne era sicuro. Lo voleva?
Poteva vedere delle sagome dentro il camioncino. Spettri ammassati insieme.
“C’è posto ancora per una persona.”
“Dove siete diretti?” domandò inutilmente, come se avesse una destinazione precisa.
L’uomo parlava con voce nasale, come se i toni bassi delle sue corde vocali fossero al massimo. “Ci sono altri aerei. Possono arrivare da un momento all’altro. Dobbiamo andarcene. Altri dieci aerei. Forse di più. Merda, amico, è appena iniziata.”
“Io, ah, io devo incontrarmi con...” Ronnie si interruppe. Fissò la portiera aperta, i sedili ricoperti di stoffa azzurra, la tuta dell’uomo. Era un uomo anziano con il pomo d’Adamo che andava su e giù e il collo che sembrava quello di un tacchino. La sua faccia era avvizzita e gentile.
“Salta su. Ti do un passaggio.”
Ronnie girò intorno al camioncino e salì davanti, accanto all’uomo. L’autoradio era sintonizzata su un notiziario, a volume molto alto. Una donna stava dicendo che le zone di Wall Street e di Battery Park, a Manhattan, erano state chiuse.
Mentre Ronnie armeggiava con la cintura, l’autista gli passò una bottiglia d’acqua. Ronnie, rendendosi improvvisamente conto di quanto avesse bisogno di bere, la prese con gratitudine e la prosciugò in un attimo.
“Io pulisco le finestre, okay? Al Trade Center, eh?”
“Già”, rispose Ronnie, distante.
“Tutta la mia maledetta attrezzatura è nella Torre Sud – sai cosa intendo?”
Ronnie non ne aveva idea, non esattamente, perché stava ascoltando solo a metà. “Sì”, disse.
“Mi sa che dovrò tornarci più tardi.”
“Più tardi”, gli fece eco Ronnie, indifferente.
“Stai bene?”
“Io?”
Il camioncino si mosse. L’interno puzzava di pelo di cane e di caffè.
“Dobbiamo andarcene. Hanno colpito il Pentagono. Ci sono dieci cazzo di aerei lassù in questo momento che ci stanno venendo addosso. Questa è una cosa grossa. Una cosa grossa!”
Ronnie si voltò. Guardò le quattro persone sedute dietro di lui. Nessuno di loro ricambiò il suo sguardo.
“Arabi”, disse il guidatore. “Sono stati gli arabi.”
Ronnie vide un bicchiere di plastica di Starbucks avvolto in un tovagliolo di carta macchiato di caffè. Accanto c’era una bottiglia d’acqua.
“Questa cosa è solo l’inizio”, disse l’uomo al volante. “Per fortuna che c’abbiamo un presidente forte. Per fortuna che c’abbiamo George W.”
Ronnie non disse nulla.
“Stai bene? Sei ferito o qualcosa del genere?”
Stavano procedendo lungo un’autostrada. Soltanto pochissimi veicoli venivano dalla direzione opposta, su un tratto sopraelevato. Davanti a loro c’era un grosso segnale stradale diviso in due. Sulla sinistra c’era scritto EXIT 24 EAST 27 PROSPECT EXPWY. La parte destra diceva 178 WEST VERRAZZANO BR, STATEN IS.
Ronnie non rispose perché non lo sentì nemmeno. Era di nuovo profondamente assorto nei suoi pensieri.
Stava lavorando a quell’idea. Era un’idea folle. Soltanto un prodotto dello shock. Ma non lo abbandonava. E, più ci pensava, più cominciava a domandarsi se potesse funzionare. Un piano di riserva all’incontro con Donald Hatcook.
Forse un piano anche migliore.
Spense il cellulare.