14.
Ottobre 2007
Un odore spiacevole che il giorno prima non c’era pervadeva il canale di scolo. Un animale in putrefazione, probabilmente un roditore. Roy se n’era accorto non appena era arrivato, poco prima delle nove del mattino, e adesso, un’ora più tardi, arricciò il naso mentre entrava di nuovo nel condotto, reggendo due grosse borse colme di bevande calde che un giovane Agente di Supporto della Polizia della Comunità era andato a prendere per loro.
La pioggia tamburellava incessantemente, trasformando il terreno all’esterno in una palude. Ma, si rese conto Grace, dentro il tubo il livello dell’acqua era rimasto uguale. Si chiedeva quanta pioggia ci sarebbe voluta. Dai ricordi del corpo di un giovane trovato nella rete fognaria di Brighton qualche anno prima, sapeva che tutte le tubature delle fogne si riversavano in un canale sotterraneo che sfociava in mare a Portobello, vicino a Peacehaven. Se quella conduttura si allagava, allora era probabile che molte delle prove, in particolare i vestiti della vittima, fossero state spazzate via molto tempo prima.
Ignorando un paio di commenti sarcastici sul suo nuovo ruolo di cameriere, ancora con i nervi a fior di pelle per la notte agitata e per i pensieri angoscianti sullo scheletro, Roy cominciò a distribuire tè e caffè alla squadra, come per scusarsi – o per espiare – di aver rovinato il loro fine settimana.
Il condotto brulicava di attività. Ned Morgan, il Consulente, diversi agenti addestrati alle ricerche e altri agenti della scientifica, tutti in tuta bianca, erano sparsi lungo il tunnel. Stavano perlustrando centimetro per centimetro la fanghiglia alla ricerca di scarpe, vestiti, gioielli: ogni frammento, per quanto minuscolo, che potesse essere stato indosso alla vittima quando era stata messa laggiù. Il cuoio e i tessuti sintetici avevano le possibilità maggiori di avere resistito all’umidita dell’ambiente.
Carponi nella penombra, nel chiaroscuro generato dai riflettori che erano stati disposti a intervalli regolari, la squadra presentava uno spettacolo inquietante.
Joan Major, l’archeologa forense, come gli altri infagottata dalla testa ai piedi nella tuta, stava lavorando in silenzio, concentrata. Se mai quella storia fosse arrivata a processo, avrebbe dovuto presentare alla corte un modello tridimensionale accurato dello scheletro in situ. Aveva appena smesso di entrare e uscire dal tubo, lottando contro la mancanza di segnale del localizzatore Gps che stava adoperando per stabilire le coordinate precise dei resti, e ora stava tracciando uno schizzo della posizione esatta dello scheletro in relazione alla tubatura e ai sedimenti. Ogni due o tre secondi, il flash di un agente della scientifica lampeggiava nella semioscurità.
“Grazie, Roy”, disse in tono quasi assente, prendendo il grosso bicchiere di caffelatte che lui le passò e appoggiandolo sulla cassa di legno in cui teneva il suo equipaggiamento, che aveva sistemato su un cavalletto perché restasse all’asciutto.
Grace aveva deciso che si sarebbe servito di una squadra leggera nel weekend per poi aumentare il personale a partire da lunedì. Con immenso sollievo di Glenn Branson, Grace gli aveva lasciato il fine settimana libero. Stavano lavorando “al rallentatore”: non c’era l’urgenza che ci sarebbe stata se la morte fosse stata più recente – giorni, settimane, mesi o anche un paio d’anni. Lunedì mattina andava benissimo per la prima conferenza stampa.
Forse lui e Cleo sarebbero riusciti ancora a rispettare la prenotazione al ristorante a Londra quella sera e a salvare qualcosa del weekend romantico che Grace aveva pianificato, se – ed era un grosso se – Joan fosse riuscita a finire la mappatura e le procedure di recupero e il patologo legale fosse stato in grado di eseguire alla svelta l’autopsia. Probabilità infinitesimale, Grace lo sapeva bene, con il dottor Theobald – e, a proposito, dove diavolo era? Avrebbe dovuto essere lì già da un’ora.
Come per un segnale, vestito completamente di bianco come tutti gli altri, il dottor Theobald fece il suo ingresso, muovendosi con cautela, furtivo come un topo che sente odore di formaggio. Alto poco più di un metro e sessanta, esibiva un ciuffo sottilissimo di capelli e due folti baffi alla Adolf Hitler sotto un naso appuntito come il muso di un Concorde. Gli mancava solo un grosso sigaro per essere il sosia di G. M., aveva detto una volta Glenn Branson.
Borbottando qualche scusa sul fatto che la macchina di sua moglie non voleva saperne di partire e di come aveva dovuto accompagnare sua figlia a lezione di clarinetto, il medico legale si mosse rapido intorno allo scheletro, tenendosi a debita distanza e guardandolo con sospetto, quasi per cercare di capire se era amico o nemico.
“Sì”, disse rivolto a nessuno in particolare. “Ah, certo.” Poi si voltò verso Roy e gli indicò lo scheletro. “È questo il corpo?”
Grace aveva sempre pensato che Theobald fosse un po’ strambo, ma mai più che in quel momento. “Sì”, disse, sbalordito per la domanda.
“Sei abbronzato, Roy”, osservò il patologo, poi fece un passo verso lo scheletro, avvicinandosi così tanto che sembrò che la domanda la stesse rivolgendo alle ossa. “Sei stato via?”
“A New Orleans”, rispose Grace, togliendo il coperchio di plastica dal contenitore del suo cappuccino e desiderando con tutto se stesso di essere ancora in Louisiana. “Ero al Simposio Internazionale degli Investigatori della Omicidi.”
“Come procede la ricostruzione?” domandò Theobald.
“Lentamente.”
“Ci sono ancora tanti danni per l’uragano?”
“Moltissimi.”
“Tanta gente che suona il clarinetto?”
“Il clarinetto? Sì. Sono andato a qualche concerto. Ho visto Ellis Marsalis.”
Theobald gli rivolse un inatteso sorriso di piacere. “Il padre!” disse in tono di approvazione. “Sì, certo. Sei fortunato ad averlo sentito!” Poi tornò a voltarsi verso lo scheletro. “Allora, cosa abbiamo?”
Grace lo aggiornò. Poi Theobald e Joan Major si infilarono in una discussione sull’opportunità o meno di spostare il corpo intatto, un processo lungo e laborioso, oppure portarlo via a segmenti. Decisero che, dal momento che era stato trovato integro, sarebbe stato meglio tenerlo così.
Per un istante, Grace osservò la pioggia che cadeva senza sosta attraverso una crepa del tubo, a poca distanza da lui. Le gocce sembravano particelle allungate di polvere nel raggio di luce. New Orleans, pensò, soffiando vapore dal suo caffè e sorseggiandolo piano, tentando di evitare di scottarsi la lingua con il liquido bollente. Cleo lo aveva accompagnato e dopo il convegno si erano presi una settimana intera di vacanza, godendosi la città e la reciproca compagnia.
Sembrava che tutto fosse più facile tra di loro lì, lontano da Brighton. Lontano da Sandy. Si erano rilassati, si erano goduti il caldo, avevano fatto un giro delle zone devastate dall’inondazione che non erano ancora state riparate. Avevano mangiato gumbo, jambalaya, tramezzini al granchio e ostriche, bevuto margarita, mojito, vini californiani e dell’Oregon, ascoltato jazz tutte le sere, a Snug Harbor e in diversi locali. E Grace si era innamorato di lei ancora di più.
Era orgoglioso di come se l’era cavata Cleo al convegno. Come donna bellissima che svolgeva un lavoro decisamente poco attraente, era un facile bersaglio per molte provocazioni, curiosità e battute di pessimo gusto da parte dei cinquecento e più investigatori maschi in vena di bagordi. Lei aveva restituito colpo su colpo, e fatto strabuzzare gli occhi a più d’uno, vestendo il suo snello metro e settantacinque nello stile eccentrico e sexy che le era consueto.
“Ieri sera mi hai chiesto quanti anni aveva, Roy”, disse Joan Major, interrompendo i suoi pensieri.
“Sì?” Grace tornò immediatamente a concentrare la sua attenzione sullo scheletro, fissando il teschio.
Indicando la mandibola, Joan disse: “La presenza dei denti del giudizio ci fa capire che aveva più di diciassette anni. C’è traccia di alcuni interventi dentistici, otturazioni in bianco – più comuni negli ultimi due decenni, e più costose. Può darsi che sia andata da un dentista privato, il che restringerebbe il campo. E c’è una capsula su uno degli incisivi superiori.” Gli indicò un dente in alto a sinistra.
I nervi di Grace iniziarono a ronzare. Sandy si era scheggiata un incisivo superiore durante uno dei loro primi appuntamenti, mordendo un frammento d’osso rimasto in una tartare, e in seguito se l’era fatto incapsulare.
“Che altro?” domandò.
“Dalla condizione generale e dalla colorazione dei denti, direi che l’età corrisponde alla stima che ho fatto ieri – tra i venticinque e i quarant’anni.” Guardò Frazer Theobald, che le rivolse un brusco cenno del capo, come se trovasse le sue deduzioni logiche ma non fosse necessariamente d’accordo con lei.
Poi Joan indicò un braccio. “L’osso più lungo cresce in tre parti – due epifisi e la diafisi. Il processo per cui si saldano insieme si chiama fusione epifisale e di solito si completa poco oltre i trent’anni. Qui non è ancora del tutto completo.” Poi indicò la clavicola. “Lo stesso di può dire per la clavicola – si può vedere la linea di fusione nella clavicola mediale. Calcifica intorno ai trent’anni. Dovrei essere in grado di darti una stima più accurata dopo l’autopsia.”
“Quindi era sulla trentina. Ne sei abbastanza certa?” disse Grace.
“Sì. E il mio parere è che non ne avesse molti di più. Potrebbe anche essere più giovane.”
Roy rimase in silenzio. Sandy aveva due anni meno di lui. Era scomparsa il giorno del suo trentesimo compleanno, quando lei ne aveva solo ventotto. Gli stessi capelli. Un dente incapsulato.
“Tutto a posto, Roy?” gli domandò all’improvviso Joan Major.
Sul momento, perso nei suoi pensieri, Roy udì la sua voce come un’eco lontana, incorporea.
“Roy? Stai bene?”
Si concentrò nuovamente su di lei. “Sì, sì. Sto bene, grazie.”
“Sembra che hai visto un fantasma.”